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L’unico e fondamentale senso della scuola dell’obbligo

Ci sono espressioni che, ogni tanto, conviene circostanziare e rammentare, sennò si rischia di chiacchierare a vanvera: io ti dico A e tu interpreti Z, benché l’espressione sia sempre quella. È un po’ come l’aggettivo «solare», che va molto di moda da qualche tempo nei curriculum vitae: «Sono una ragazza solare», e vattelapesca cosa significa. Da circa un ventennio si è scoperto che «La scuola è un’istituzione» (continuazione: e non un servizio), un’affermazione che si incontra abbastanza di frequente, una specie di monito: «Attento a te, guarda che la scuola è un’istituzione!». Allora ci riprovo, alla partenza della campagna elettorale che rinnoverà gli organi politici della Repubblica, con la certezza che se ne sentiranno delle belle.

La scuola, infatti, non è un servizio, come lo sono la distribuzione dell’elettricità, la raccolta dei rifiuti, la gestione della rete viaria, la posta o la ferrovia. Molti godono del marchio di «servizio pubblico» – e un qualcuno, una volta, lo era per davvero, benché poi sia stato messo sul mercato, e buona notte al secchio. Ci sono invece dei compiti che oltrepassano la semplice funzione di offrire un servizio, sotto forma di prestazione a pagamento diretto. Le votazioni su La scuola che verrà, il Salmo svizzero o l’educazione alla cittadinanza hanno mostrato due cose: che anche ai supposti «addetti ai lavori» ogni tanto manca l’ABC dei processi che fanno funzionare l’apprendimento (e, conseguentemente, l’insegnamento); e che si vuole una scuola che istruisca e che svolga compiti di selezione precoce.

Se la scuola che oggi prevale nelle idee della maggioranza è questa, allora siamo di fronte a un servizio, vale a dire a un organismo che fornisce un prodotto o una prestazione. È seccante doverlo ripetere, ma la scuola dell’obbligo dovrebbe avere lo stesso valore politico e culturale della giustizia e dell’esercito, vale a dire istituzioni che non possono perseguire interessi individuali. L’educazione non può ubbidire a leggi di mercato, così come i giudici non devono soggiacere alla soddisfazione dei condannati; deve invece rispondere a principi specifici, definiti dai primi articoli della legge della scuola. La scuola dell’obbligo è diversa dalle scuole che vengono dopo. Essa non deve formare medici e idraulici, architetti e falegnami, maestri e bancari, tutti, possibilmente, di alto livello; ma ha un obiettivo diverso e più nobile, quello di gettare le basi per educare i cittadini di domani.

L’educazione non è disgiunta dalla conoscenza e dall’istruzione. È incomprensibile che ci si ostini a sostenere che senza la meritocrazia, applicata coi voti scolastici, sia impossibile «fare scuola» senza diminuirne il livello. Quando lo Stato decide che tutte le persone tra i quattro e i quindici anni devono – devono! – andare a scuola, non può limitarsi a inseguire la selezione delle menti scolasticamente più leste. Il suo compito è invece quello di fare in modo che ogni ragazzo possa raggiungere il massimo delle sue possibilità culturali e intellettive entro i quindici anni, nel contesto sociale, famigliare, economico e culturale in cui sta crescendo. Se lo Stato non è in grado di garantire ciò e sceglie invece, per mezzo della scuola pubblica e obbligatoria, di ridursi a sancire la rapidità e i picchi più alti dei successi scolastici, tanto vale metterla sul mercato: costa meno, non crea illusioni né recriminazioni antipatiche ed egoiste, e si può sempre cambiare. Insomma: soddisfatti o rimborsati.

Serenità, tempo, diritto: le parole perdute della scuola

Non è, di per sé, che mi spiaccia fare gli auguri, e nemmeno lo sento come un dovere più o meno conveniente. Però ci sono date con un sapore simbolico più gradevole di altre. Il passaggio da un anno al successivo è una di queste.


Nei giorni sotto Natale è circolata nei media l’originale iniziativa didattica di un’insegnante di lettere di una scuola secondaria dalle parti di Lodi. Per i suoi allievi ha avuto un’idea insolita: la rubrica delle parole perdute. Gli ultimi cinque minuti di lezione – racconta – ho deciso di impiegarli ricordando termini di scrittori del passato (da Dante ad Alessandro Manzoni) o andati ormai in disuso. Chiedo loro di memorizzarli e contestualizzarli. Il massimo per i miei alunni era citare i versi dei rapper del momento; io, invece, batto sull’antico. All’inizio erano perplessi, poi hanno iniziato a incuriosirsi, a divertirsi e a creare frasi, fino a quando una mattina un alunno si è “dichiarato” a una sua compagna affermando: “La tua presenza è alcinesca”. L’aggettivo alcinesco vuol dire attraente. In quel momento ho capito che la mia iniziativa stava funzionando.

Ne ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 23 dicembre (“Le parole che fanno crescere”):

In un tempo in cui il vocabolario viene sfregiato dalle volgarità e dalle sciatterie di politici cialtroni e volgari nonché dall’esibizionismo anglofilo, quello della prof. De Luca è un gesto quasi eroico. Proporre ai ragazzi di aggiungere al loro repertorio lessicale parole inconsuete e strane, significa opporsi a quella che Pasolini, sin dagli anni 70, intravedeva profeticamente come omologazione culturale da civiltà totalitaria. E non è facile, visto che spessò l’educazione «sentimentale» giovanile è improntata al turpiloquio finto trasgressivo e finto maledetto di tanto rap o trap commerciale […]. La lingua ha un’infinità di risorse: è un deposito di storie (le etimologie sono intrecci straordinari come i migliori romanzi), un patrimonio di potenzialità creative con cui si può anche giocare, ed è il più ricco arsenale di armi (non da fuoco!) con cui farsi valere. La Prof. De Luca ha capito, probabilmente, che con l’aria che tira la prima educazione civica è quella linguistica.

ALFRED SISLEY – «Le Chemin de Montbuisson à Louveciennes», 1875, Huile sur toile (cm 46 x 61), Paris: Musée de l’Orangerie

Anche la scuola ha il suo elenco di parole perdute. Di alcune non si sente la mancanza, anche se il mondo è pieno di nostalgici – Si stava meglio quando si stava peggio!, e quattro scapaccioni erano più pedagogici di tante manfrine. No, grazie.

Ci sono invece parole che si dovrebbero recuperare, parole che arrivano da tanto tempo fa. Una, ad esempio, è tempo, una parola che ci riporta a Jean-Jacques Rousseau.

Émile ou de l’éducation, par Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, 1762: Amsterdam, chez Lean Néaulme, Libraire | Tome premier, Livre second, pp. 191-2

Così la filosofa Lina Bertola:

(…) se l’educarsi è un divenire ciò che si è, un viaggio verso sé stessi, la scuola per educare deve anche saper resistere. Resistere alle esigenze sempre più pressanti di un mercato che richiede prestazioni, inducendo a sacrificare la pienezza dell’essere allo sviluppo delle capacità di funzionare bene. Ma per educarsi occorre tempo (…). Nell’educazione di Emilio bisogna in un certo senso perdere tempo, non essere impazienti di vedere nel fanciullo l’uomo. Grande idea: perdere tempo, lasciarlo scorrere il tempo, attraversarlo con calma, come richiede l’ascolto di un sentimento, il filo di un ragionamento, la trama di un pensiero e di un racconto che sappia diventare esperienza di sé nell’ordine del senso. Bella idea per contrastare una scuola che senza il tempo non può educare. Per contrastare una scuola frettolosa e un po’ disorientata che rincorrendo performances di ogni genere arriva perfino a pensare di anticipare le scelte per migliorare la sua qualità.[Rousseau e l’educazione, RSI Rete 2, giugno 2012].

Sì, tempo è una parola da togliere dalla soffitta, perché suggerisce altre parole da rimettere in piena forma, come serenità, affinché la scuola sia un ambiente protetto, dove si possa crescere e imparare perché si percepiscono la fiducia e il rispetto. O come diritto, altra parola che ha radici millenarie, perché la vita nell’aula deve offrire a tutti la certezza del diritto, al riparo da ogni vessazione, contro l’indifferenza alle differenze, e con la scelta precisa di «passare dal mito delle pari opportunità al diritto all’educazione per tutti».

Anche nella scuola ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti.

È il mio augurio per il 2019.

L’educazione non è un’ammucchiata di materie scolastiche

È fuor di dubbio che la lunga campagna per il voto su «La scuola che verrà» ha soffocato un dibattito che avrebbe potuto essere sereno e politicamente appassionante. Sappiamo com’è andata a finire: non s’è cavato un ragno dal buco. Dal canto suo la scuola continuerà a esserci e, in parte, a campare sui sentieri del velleitario nuovo piano di studi progettato dal nostro Dipartimento dell’educazione, nel contesto del concordato HarmoS. Quel che è peggio è che la disputa, dopo le precipitose esequie del progetto originale del ministro Bertoli, ha finito per girare attorno al tema della selezione scolastica, seppur con dei distinguo. Il vero problema, in realtà, non è quello di stabilire se, quando e con quali mezzi far emergere le élite, gli uomini e le donne migliori che contribuiranno al progresso, al benessere e alla convivenza civile. Quella, in qualsiasi regime politico, è una necessità legittima.

Si deve però convenire che se la finalità predominante della scuola obbligatoria è quella di funzionare per eliminazioni successive degli anelli deboli della catena, allora i costi, umani ed economici, sono esagerati, soprattutto in questi tempi così utilitaristici, dove conta ciò che è monetizzabile e quotato nella borsa del successo individuale. Qual è il senso di obbligare ogni individuo a frequentare la scuola per undici anni filati, se poi gli si dice, poniamo, che la matematica non fa per lui e che le lingue foreste non le impara, perché è un pelandrone, per di più un po’ duro di comprendonio? E perché mai si continua ad affastellare l’una sull’altra una marea di discipline, senza un chiaro progetto educativo per il Paese?

Oggi viviamo polarizzazioni politiche incredibili e inspiegabili. I partiti che hanno fatto il benessere di questo Cantone partendo proprio dalla scuola, ora hanno gravi crisi di amnesia storica. L’istituzione della scuola pubblica e obbligatoria e i cambiamenti che si sono succeduti dall’800 fino agli anni della globalizzazione hanno contribuito al nostro benessere, ci hanno accompagnati attraverso due guerre mondiali, hanno agevolato la conoscenza reciproca tra regioni linguistiche e culturali diverse, ci hanno educati alla democrazia, senza cedimenti alle diverse dittature che hanno lasciato dolorose impronte in Europa. Tutto ciò è stato possibile perché la scuola dello Stato mirava a educare cittadini coscienti del ruolo di ognuno. Lo ha fatto per tanti decenni attraverso le discipline umanistiche, la matematica e le scienze naturali. I maestri facevano il maestro, non erano dei banali selezionatori, a volte un po’ maldestri. Oggi sembrerebbe che l’educazione sia diventata una specie di lusso. Proprio quando la società, sempre più variegata, è divenuta brutale verso gli adulti che lavorano, lo Stato ha deciso che l’educazione è un affare delle famiglie – anche di quelle in cui non ci si incontra e non si parla, se non per litigare: perché sopravvivere mese dopo mese non concede distrazioni, e spesso un unico salario risulta assai scarso.

Forse è il momento di chiederci cosa sta producendo questa scuola, programmata in vista del liceo, che traghetterà i migliori esemplari, scolasticamente parlando, all’università in salsa bolognese, quella del 3+2. La democrazia è una cosa seria e, come ha ricordato il presidente della repubblica italiana alla prima della Scala, la cultura e l’arte «sono un baluardo della democrazia», al di là di ogni ingegneria didattica e a favore del maggior numero possibile di futuri cittadini.

Scuola e politica all’inseguimento del futuro (prossimo)

Neanche fosse chissà quale novità, l’informatica. D’accordo, se ne parla almeno dal 1984, anno quanto mai simbolico, quando due giovanotti misero sul mercato il primo Mac, un «coso» con la mela che avrebbe cambiato il mondo. Eppure scuola e politica stanno vivendo proprio di questi tempi la loro età degli eccessi ormonali nei suoi confronti. Sembrerebbe che le scuole scollegate dal www e prive di adeguate apparecchiature di alta tecnologia siano impossibilitate a perseguire le loro alte finalità educative. L’ultimo numero di Ticino Management ha dedicato un servizio al tema, declinandolo sulla formazione degli insegnanti. Ha detto Luca Botturi, docente di Tecnologie e Media in educazione al DFA della SUPSI: «Accanto a tematiche caratterizzanti del nostro Dipartimento, quali la didattica dell’italiano, della matematica e delle lingue straniere oppure agli aspetti legati alla gestione della classe, la riflessione sul rapporto tra educazione e nuove tecnologie è una delle nuove frontiere sulle quali ci stiamo impegnando».

«Constatare che la tecnologia si è fatta spazio in ogni aspetto della nostra vita – ha scritto il filologo Lorenzo Tomasin in un bel saggio del 2017 – ha indotto molti a pensare che essa dovesse averne uno anche nella formazione delle nuove generazioni. Per lungo tempo portare i bambini a scuola significava perlopiù strapparli ai campi. Ora, a chi mai sarebbe venuto in mente di portare i bambini a scuola per mostrare loro una zappa, o per insegnare loro come funziona? Nella grande maggioranza dei casi sarebbe stato certo più sensato che far trovare loro un vocabolario, un trattato di matematica e un’insulsa poesia da imparare a memoria. Ma a lungo, forse sbagliando, abbiamo pensato che in quelle pagine stessero gli ingredienti di base della buona istruzione. E che questi fossero gli strumenti migliori per trasmetterli. Operando altrimenti, sarebbe stato assai difficile fare di un contadino qualsiasi altra cosa che un contadino; di un operaio, altro che un operaio. Se molti figli e nipoti di contadini sono diventati ingegneri, medici e architetti è proprio perché a scuola hanno trovato qualcosa di diverso da una zappa, e sia pure da una zappa tecnicamente raffinatissima».

I ragazzi della scuola dell’obbligo sono nati col mouse in mano, hanno imparato a scorrere l’indice sullo schermo del telefonino prima ancora di dire «mamma». Spesso sono vittime e imputati di cyber bullismo o di altri misfatti, ma non saranno i nostri predicozzi a convincerli che ci vuol poco a cadere nella rete e a farsi male.  Tentare di forgiare l’Homo technologicus è pericoloso (avete in mente la creatura del dr. Frankenstein?), un po’ perché si vedono già in giro fin troppi «idioti specializzati»; e un altro po’ perché ciò che oggi è il massimo dell’hi-tech domani è già antiquato, sorpassato da un altro hi-tech, che avrà anch’esso la vita effimera di una farfalla. Meglio, quindi, tornare a dedicarsi con passione all’educazione di Homo sapiens, attraverso le discipline umanistiche, la logica, la matematica e le scienze naturali, in un ambiente – la Scuola – fondata sul diritto e sul rispetto, con l’idea che, insieme, si sta imparando il difficile mestiere di donne e uomini adulti. Vendere il Paese e i suoi cittadini di domani a questa economia feroce e cinica sarebbe un crimine. Eppure è proprio quel che potrebbe capitare assai in fretta, man mano che le moderne tecnologie diverranno un fine, e non un mezzo per prefiggersi traguardi più nobili.


La citazione di Lorenzo Tomasin, parziale, è tratta da: LORENZO TOMASIN, L’impronta digitale – Cultura umanistica e tecnologia, 2017, Carocci editore, pp. 8-9

La citazione di Luca Botturi è tratta da: SUSANNA CATTANEO, «Digitalizzazione: scuola all’appello», in Ticino Management, Mensile svizzero di finanza, economia e cultura, Anno XXX, N° 10, Ottobre 2018, p. 78

Cambiare la scuola per davvero? Pura fantascienza

Finalmente è passato. Il referendum sulla «Scuola che verrà», intendo, quella del ministro Bertoli, una riforma nata male, poco prima della votazione del 2015 per rinnovare esecutivo e legislativo della Repubblica, e affossata a pieni voti, nell’indifferenza di gran parte della popolazione, a pochi mesi dalle politiche dell’anno prossimo. I politologi nostrani dicono che il voto del 23 settembre si ripercuoterà sulle ripartizioni del Consiglio di stato e del Gran consiglio. Sarebbe come dire che, per una volta, la scuola dell’obbligo ha avuto un’influenza palpabile su un paese normalmente sonnacchioso.

Non ho mai nascosto che la vera riforma sarebbe stata quella presentata nel 2014: quella sì, puntava a una Scuola più giusta; non ci sarebbe neanche stato il referendum, perché, è inutile girarci intorno, sarebbe stata affossata dal parlamento, con una maggioranza bulgara.

Morale della favola: la scuola non si tocca, al massimo la si ritocca, con aggiustamenti di piccolo o medio cabotaggio. A resistere, sotto sotto, sono ancora la scuola maggiore e il ginnasio, teoricamente aboliti quarant’anni fa, ma, in realtà, mimetizzati tra i livelli della scuola media, pronti a balzare sulle prede più deboli e sprovvedute. Ecco perché tanti, ma proprio tanti, vorrebbero dei livelli di selezione più efficaci e tempestivi. Ero già rimasto meravigliato quando, non tanto tempo fa, il francese era stato retrocesso in serie B: da lingua armata della scuola media a semplice comparsa, vaso di terracotta in compagnia di molti vasi di ferro. Il cambiamento era avvenuto talmente in fretta, che mi ero chiesto se non fosse stato perché, magari, tanti docenti di francese erano lì lì per andare in pensione.

Alla fine sono queste le cose che contano. Nella scuola le lobby disciplinari hanno una potenza a cui non si sfugge. Si sa, anche se nessuno lo dice, che certe scelte di politica scolastica devono fare i conti con la tradizione e con una difesa interna assai autoreferenziale. Poniamo, per fare un esempio, che un giorno lo Stato decida di diminuire le ore settimanali di italiano, per far posto alla storia dell’arte o al diritto. Va da sé: calerebbe il fabbisogno di insegnanti di italiano. Quindi? C’è qualcuno che è davvero convinto che la riforma passerebbe, al di là dell’indubbia utilità di questa scelta per l’educazione dei futuri cittadini?

Il presidente dell’UDC, che coi suoi omologhi aveva promosso il referendum, gongola. «I fautori del no alla Scuola che verrà – ha annotato – hanno sempre affermato senza equivoci, che il no non è un no alla riforma scolastica, ma un no a quella proposta». Così, ecco già all’indomani un’iniziativa parlamentare che mette lì la sua rivoluzione copernicana del sistema scolastico: sessantun punti, irrinunciabili ma negoziabili. C’è di tutto. Ma c’è, in particolare, che si vuole una scuola ben diversa da questa, il che, di per sé, non sarebbe un male. È quel che vorrebbero un po’ tutti, anche se alla rinfusa. Però tranquilli, non succederà nulla, perché i gattopardi sono sempre all’erta. Quei medesimi addetti ai lavori che, nelle scorse settimane, erano montati sul pulpito per dire che non si potevano condividere le idee così «ideologiche» del progetto di Bertoli, domani getteranno sul piatto altri cavilli. Lascia stare la mia scuola, insomma. D’accordo, siamo andati sulla Luna, forse andremo addirittura su Marte, e Trump è presidente degli Stati Uniti: cose incredibili. Ma cambiare la scuola è al di là della fantascienza.