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Serve un progetto politico per la scuola dell’obbligo

Gesù bambino ha portato ai maestri delle scuole comunali un regalo che aspettavano da tanto, troppo tempo: un aggiornamento dello stipendio. Era ora, quasi per tutti. «Quello dello stipendio – ha detto il direttore del DECS – è uno degli aspetti che concorrono a rendere attrattiva la professione di insegnante», il che significa che per diversi anni molti maestri hanno lavorato con una busta-paga poco attrattiva. Chissà perché. Si deve pur ammettere che nel lungo periodo caratterizzato da una forte disoccupazione magistrale non ci si è preoccupati molto delle condizioni di lavoro dei nostri docenti, se non a parole, col famoso slogan dell’«investire nell’educazione». È già tanto se hanno un posto di lavoro, avrà pensato qualcuno. Da qualche anno, però, cominciano a scarseggiare i maestri di scuola elementare, e c’è da credere che per un po’ saranno necessari tanta fantasia e un bel po’ di pragmatismo per sostituire i tanti che andranno in pensione, oltre a chi finirà in congedo per ragioni diverse.
Cautamente il ministro Bertoli ha sottolineato che quello del salario è solo uno dei tanti aspetti che rendono attraente l’insegnamento. Spero – ma ho paura di illudermi – che gli altri aspetti non siano solo la diminuzione del numero di allievi per classe, il potenziamento dei servizi di sostegno, l’estensione dei direttori a tutti gli istituti, la realizzazione di HarmoS e nuovi servizi para-scolastici. Perché, diciamocelo con franchezza, insegnare oggi è diventato un mestiere difficile per ben altre ragioni. Negli ultimi cinquant’anni, con una robusta accelerazione negli ultimi tre lustri, la scuola dell’obbligo è passata da istituzione dello Stato, con finalità di alfabetizzazione, educazione e cultura, a servizio orientato in maniera unilaterale verso l’economia. Siamo, insomma, alla paventata scuola supermercato, che cerca di dare risposte (sconnesse) ai bisogni più disparati. Non è certo con i corsi di educazione civica o i giochini didattici sull’interculturalismo, né con un’interpretazione sempre più tecnocratica dei programmi, ridotti a un’ammucchiata di discipline, che è possibile fondare un legame sociale tra cittadini in grado di adattarsi al mutare rapido e incessante del mondo e a preparare le giovani generazioni all’inevitabile confronto con le culture asiatiche, mediorientali e africane. Per educare e istruire cittadini consapevoli, critici e liberi, occorre riaffermare con forza il progetto educativo dello Stato: è innegabile che l’economia ha un’influenza rilevante, a tutti i livelli. Ma altri interessi superiori devono prevalere nel dibattito politico.
Il fascino della professione risiede proprio lì, nel legare l’istruzione e l’educazione all’interno di un gruppo – la classe – che è una piccola società basata sul diritto, sul lavoro tenace ed esigente, sulla fiducia nella capacità di ogni allievo di raggiungere il massimo delle sue potenzialità. Perché il difficile compito dell’insegnante della scuola dell’obbligo, sia esso un maestro delle scuole comunali o un professore delle medie, deve mirare a dar vita a futuri adulti che sappiano comunicare e pensare, che conoscano la matematica, la storia, la geografia, le scienze e le arti. In una società che chiede sempre più versatilità, la scuola pubblica e obbligatoria deve rispondere in termini politici, con un progetto serio e lungimirante. È invece insensato, ed economicamente irrazionale, che la scuola dello Stato scialacqui gran parte delle sue energie a selezionare chi potrà frequentare il liceo.

Primo: imparare bene. Per le pagelle c’è tempo una vita

«Allenare i bambini non significa puntare alla vittoria. Prima devono imparare a giocare bene». Così parlò Claudio Mezzadri, grande sportivo che, a suo tempo, ha scalato le classifiche del tennis che conta. Lo ha detto durante una serata pubblica organizzata dalla Federazione Ticinese Calcio a fine novembre, sul tema «Genitori e sport», di cui ha ampiamente riferito La Regione. E ha aggiunto: «Mio papà mi ha insegnato cosa significa fare sport. Parlandomi di rispetto dell’avversario, spirito di sacrificio, imparare dalle sconfitte». Gli ha fatto eco Pierluigi Tami, allenatore della nazionale U21: «Giocare bene è importante: solamente così si raggiungono buoni risultati». È bello che simili precetti pedagogici vengano proprio dal mondo dello sport, che per sua natura è basato sulla competizione. E sarebbe ancor più bello se anche la scuola dell’obbligo basasse il suo intervento quotidiano su questa massima. Imparare bene: solamente così si raggiungono buoni risultati.
Invece a scuola è la valutazione a farla da padrona, quasi sempre insensibile alle tante diversità cognitive e culturali che si ritrovano in ogni classe. Prendiamo la prima elementare. Da noi inizia a sei anni, ma la differenza di età tra i diversi allievi può essere di quasi un anno: tanta, quando si è così piccoli. Le ricerche dicono che è verso i sei anni che un bambino è pronto per imparare a leggere e a scrivere. Se lo dicono le statistiche, significa che sarà pronto circa il 70%. E l’altro 30%? Diciamo che, teoricamente, metà avrà forse già iniziato a muovere agevolmente i primi passi tra lettere, sillabe, parole e frasi, mentre l’altra metà proprio non ne ha ancora i mezzi, che arriveranno, soprattutto se convenientemente stimolati. Così in ogni prima elementare di venti allievi potrebbero essercene due o tre che non possono ancora imparare a leggere e scrivere, e non è neanche detto che siano proprio i più piccolini. L’insegnante accorto terrà conto di questa immaturità, cercherà di sviluppare al massimo le capacità del momento e, soprattutto, incoraggerà l’allievo e rassicurerà i genitori, facendosene un baffo di studi e statistiche. Ma più spesso non è così. Capita invero che dopo neanche un mese di scuola il genitore si senta dire che il proprio figliolo è in difficoltà, che non ce la fa a tenere il passo: si può immaginare la situazione. Per non parlare della scuola media, dove il trascorrere degli anni scolastici è scandito dai test.
Fosse per me abolirei ogni forma di valutazione che serva a mettere in fila i bravi e i meno bravi, quelli favoriti dalla sorte e i soliti scalognati. Se la scuola dell’obbligo dura nove anni – saranno undici con HarmoS – si faccia in modo che ogni allievo giunga al traguardo munito delle competenze ritenute fondamentali, perché per la selezione e le specializzazioni c’è tutto il tempo dopo. Le pari opportunità impongono alla scuola pubblica la diversità degli sforzi disponibili, come si fa nel campo della sanità, della giustizia e del lavoro sociale.
Hanno scritto i ragazzi della scuola di Barbiana, quelli di don Milani: «Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire tutti. Voi [maestri] invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Perciò vi contentate di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla scuola.» Primo imparare bene, insomma. E vediamo di non aggiungere sofferenze a sofferenze.

I livelli della scuola media non sono una vacca sacra

Con tutte le volte che ho scritto peste e corna dei livelli A e B della scuola media e di tutte le forme di selezione più o meno dissimulata che avvinghiano la nostra scuola come una malerba, sono naturalmente favorevole all’iniziativa parlamentare dei Verdi, che vuole abolire i livelli nel secondo biennio: anche se poi bisognerà vedere quel che ciò potrà significare. Si fa in fretta a togliere, ma bisognerebbe avere le idee in chiaro su dove si vuole andare, ciò che non è per nulla evidente, al di là delle solite dichiarazione in perfetto stile politichese. Il consigliere di Stato Manuele Bertoli ha subito dichiarato che vale la pena discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Aggiungerei: su tutta la scuola dell’obbligo, visto che con HarmoS inizierà persino due anni prima, a quattro anni. Però è ormai cominciato il teatrino della politica istituzionale, quella che volentieri fa in modo di non guadagnarsi la P maiuscola. Generazione Giovani, il movimento giovanile del PPD, ha già reagito «esprimendo stupore e contrarietà verso un’iniziativa che se approvata, farebbe solo del male alla qualità della formazione dei giovani ticinesi». Perché tanto sbigottimento affidato a un comunicato stampa, appena poche ore dopo la presentazione dell’atto parlamentare? Scrivono gli stessi giovani del PPD: «A spingere la stesura di un comunicato stampa ci ha pensato il Consigliere di Stato On. Manuele Bertoli che, a fronte delle sue prime reazioni, sembra purtroppo sostenere la tesi dell’abbandono dei gruppi differenziati d’insegnamento nelle materie di matematica e tedesco». Si guardi attentamente quel «purtroppo», che non lascia presagire nulla di buono nell’ipotesi che si apra un utile dibattito – e tenuto conto che nessuno può tirarsi fuori da una situazione che disgraziatamente è congenita: perché c’è davvero qualcosa che non gira come dovrebbe. Mentre scrivo son trascorsi solo pochi giorni dalla presentazione della proposta dei Verdi, ma è già polemica. Magari, quando la rubrica apparirà, altri pronunciamenti avranno contribuito a esporre posizioni più o meno precostituite, secondo i dogmi di ogni partito, movimento o associazione.
Eppure quando la deputata Francesca Bordoni Brooks, sul Corriere del 4 aprile, aveva buttato un pesante sasso nello stagno, proponendo di «dividere questa scuola media unica per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali», nessuno era insorto con uguale tempismo e toni da vigilia dell’apocalisse. Sarà stucchevole, ma viene in mente la nota battuta attribuita ad Andreotti: a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina. In altre parole: vuoi vedere che il mantenimento dell’attuale scuola media, magari con un inasprimento delle regole per separare il grano dal loglio, trovi molti più consensi di quel che non si scriva e si dica, da destra a sinistra e ritorno? In fondo, tanto per fare un esempio, la scuola media, classe 1974, era nata coi livelli A e B, ma senza la nota di condotta e i mezzi punti per valutare le diverse materie. A pochi anni dalla sua generalizzazione, però, la nota di condotta e i mezzi punti erano stati riabilitati se non a furor di popolo, almeno a furor d’insegnanti. Di grazia: qualcuno è in grado di dire in maniera comprensibile a che serve la nota di condotta, questa specie di casellario giudiziale ante litteram? E qualcuno sa spiegare, con la dovuta trasparenza, qual è la differenza tra un 4½ e un 5? Mi verrebbe da dire che le cose o si sanno o non si sanno: il resto son solo diavolerie scolastiche, fumo negli occhi per convincerci che le note siano un fatto oggettivo e scientifico. E pensare che siamo solo all’inizio dell’opportuna contesa: c’è da credere che la discussione sull’iniziativa verde riserverà tanti momenti spassosi, a cavallo tra farsa e tragedia, a seconda delle diverse sensibilità.

HarmoS: come sarà la nuova scuola dell’infanzia ticinese?

Da qualche settimana sono comparsi tra le lettere dei lettori alcuni scritti pervasi di preoccupazione e disappunto per una delle riforme che saranno realtà, anche nel nostro cantone, con l’entrata in vigore del concordato sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, più noto con l’acronimo HarmoS. Tra le misure che tenteranno di omologare la scuola obbligatoria nell’intera Elvezia, vi è l’età d’inizio della scuola obbligatoria, che non sarà più fissata a sei o sette anni a dipendenza dei diversi cantoni, bensì a quattro anni per tutti. Sino ad oggi i Cantoni che hanno aderito al concordato sono solo undici. Non bisogna però scordare che nel 2006 il popolo svizzero aveva accettato, forse un po’ troppo a cuor leggero, i nuovi articoli costituzionali sulla formazione, con una forte maggioranza dell’86%. Ciò significa che oggi i Cantoni sono tenuti dalla Costituzione a regolamentare in maniera uniforme certi aspetti fondamentali di questo sistema. Per la cronaca, il Gran Consiglio aveva votato la nostra adesione nel febbraio scorso; in assenza di referendum, l’adesione ticinese ad HarmoS è dunque definitivo. Dal punto di vista formale, perciò, le lamentele di oggi sono a dir poco tardive, così che entro il 2015 si decollerà.
Nella sostanza, invece, le preoccupazioni sono legittime e opportune, anche perché, al momento attuale, l’anticipo di due anni dell’età d’inizio della scuola obbligatoria resta un oggetto misterioso di cui si conosce un unico elemento: la scuola sarà obbligatoria per tutti i bambini che avranno compiuto il quarto anno di età entro il 31 luglio. Tutto il resto è ignoto al di fuori delle segrete stanze dipartimentali. È ovvio che per il Ticino questo cambiamento sarà un po’ meno sconvolgente rispetto a quei cantoni che attendevano l’età di sette anni, una scadenza vissuta quasi in modo dogmatico da tanti genitori confederati, tanto che, quando giungevano nel nostro cantone, non c’era verso di convincerli che la nostra partenza a sei anni non generava chissà quali sconquassi psichiatrici. L’inquietudine odierna contro la nuova età d’inizio, tuttavia, non prende di mira gli scopi fondamentali dell’accordo intercantonale, ma è vissuto da alcuni genitori come un’insopportabile ingerenza dello Stato, che si vuole appropriare di bambini così piccoli togliendoli alla famiglia e impedendone di riflesso un’educazione secondo ritmi e modalità caratteristiche ed esclusive.
Sarebbe opportuno che il nostro DECS cominciasse a svelare le sue carte, descrivendo almeno per sommi capi come sarà la nuova “scuola dell’infanzia” obbligatoria a partire dai quattro anni. Sarà interessante sapere, ad esempio, quali tempi avrà, sia a livello di durata dell’anno scolastico che di orario giornaliero. Eppoi i genitori vorranno conoscere quali saranno i contenuti della nuova scuola e se anche lì vi saranno i “giudizi”, le note scolastiche, i test e le (a quel punto) inevitabili bocciature. E ancora: come saranno formate o aggiornate le maestre e quale grado di armonizzazione – questo sì importantissimo – caratterizzerà il passaggio alla scuola elementare. Se tutti questi aspetti non saranno chiariti, oppure se, peggio ancora, si sarà costretti a mandare i propri figli a scuola a quattro anni nell’identica scuola dell’infanzia odierna, allora avranno avuto ragione gli scettici e i contrari di oggi, perché della riforma resterà solo l’aspetto coatto. È infatti vero, da un lato, che già oggi la scuola dell’infanzia è frequentata da una percentuale altissima di bambini di quattro e cinque anni; ma proprio perché si tratta di una scuola facoltativa, essa è caratterizzata, almeno nella pratica quotidiana, da innumerevoli libertà riguardo alla sua durata e ai suoi programmi. Se HarmoS rappresenta una formidabile opportunità per migliorare tutta la nostra scuola, converrà cominciare proprio dalle novità: che siano straordinarie, concrete, conosciute per tempo e, alla fine, condivise.

È in arrivo HarmoS: calma e gesso!

Attorno al 2015/16 HarmoS, l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, dovrebbe entrare nel vivo dei cambiamenti previsti. Lo scorso 22 settembre il DECS ha organizzato la seduta costitutiva dei quattro gruppi di lavoro che si occuperanno di adattare il nostro sistema scolastico alle indicazioni contenute nel Concordato. Bene. Volendo si potevano anticipare un po’ i tempi, ma – come ha spiegato Diego Erba illustrando il mandato dei gruppi – se non si fosse pronti per quella scadenza è difficile che Berna ci invii l’esercito a bombardarci. Non bisogna però enfatizzare gli effetti di HarmoS, che in realtà non sarà una rivoluzione copernicana del sistema scolastico ticinese. È certamente un merito del ministro Gendotti e dei suoi collaboratori se per il Ticino i cambiamenti intimamente legati al Concordato saranno tutto sommato contenuti, dal momento che si è riusciti a patteggiare diverse eccezioni, la più importante delle quali è certamente il mantenimento della scuola elementare di cinque anni e della media di quattro. In fondo sono solo due i cambiamenti sostanziali che toccheranno direttamente le famiglie i cui figli nasceranno a ridosso del 2015 o giù di lì. Il primo riguarda l’età di riferimento per essere ammesso (o costretto) a iniziare la scuola, che oggi è il 31 dicembre, mentre sarà abbassata di un mese per volta a partire dal 2012, fino ad arrivare alla nuova data del 31 luglio. Il secondo, più importante, riguarderà invece l’inizio della scuola dell’obbligo, portato dagli attuali sei ai futuri quattro anni; in altre parole, per intenderci, i nati entro il 31 luglio dell’anno prossimo non potranno più decidere se e quando iniziare la scuola dell’infanzia, ma saranno costretti a presentarsi il 3 settembre 2015.
Gran parte degli altri contenuti dell’accordo – gli standard nazionali di formazione, i portfoli, il monitoraggio del sistema educativo – non avranno per contro una visibile e tangibile ricaduta diretta sugli allievi e sulle loro famiglie. HarmoS, dunque, rappresenta una buona opportunità per tentare di risolvere qualche problema, che sarebbe però esistito anche senza questo accordo. È il caso dell’inclusione dei bambini di tre anni nella scuola dell’infanzia: già oggi è un problema più sociale che scolastico in senso stretto. L’anticipo dell’obbligatorietà scolastica a quattro anni avrebbe potuto essere l’occasione giusta per garantire comunque la possibilità di mandare i bimbi di tre anni all’asilo, ma in strutture con altri scopi e differenti strutture organizzative, più vicine alle competenze del DSS che non del DECS; ma il Parlamento, denotando una visione per lo meno conservatrice, ha deciso che non cambierà nulla: i treenni di domani potranno frequentare la scuola assieme a quelli di quattro e cinque anni, non si sa bene con quali vantaggi rispetto a una soluzione meno scolastica e più sociale. Un’altra necessità, già oggi presente ma che sarà affrontata grazie ad HarmoS, è quella dell’armonizzazione dei programmi dalla scuola dell’infanzia – tutti da inventare, perché oggi vi sono solo degli «orientamenti programmatici» – alla media, passando dall’elementare. Non è un problema nuovo, come detto. In particolare, tra la 5ª elementare e la 1ª media c’è attualmente uno strapiombo: sarà quindi indispensabile costruire i ponti più idonei, secondo modalità che gli esperti della Divisione della scuola dovranno progettare ed erigere. In mezzo – o accanto, o sopra, … – c’è un’esigenza fondamentale di formazione dei docenti, anche pensando all’enorme ricambio generazionale che avverrà più o meno in concomitanza con l’entrata in vigore di HarmoS. Ma questo è un problema che dovrà essere affrontato e risolto dal nuovo dipartimento della formazione e dell’aggiornamento della SUPSI, che ha sostituito in un botto la vecchia Magistrale; un dipartimento, però, che è come l’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.