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La maledizione di Don Chisciotte della Mancia

Mi diverto un sacco a organizzare proposte culturali per le scuole. Sono quasi sempre momenti molto coinvolgenti, per le belle cose che si affrontano, per le persone con le quali si lavora (ci vorrebbero quasi le virgolette, perché è un lavorare delizioso), per le emozioni che si vivono e si fanno vivere ad altri.

Giovedì scorso è andato in scena «Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia», una rilettura del romanzo di Miguel de Cervantes, a quattrocento anni dalla sua morte, curata con Silvia Demartini, mia impagabile e insostituibile complice nell’ambito di «Piazzaparola».

Tanto per riassumere: «Piazzaparola» è una manifestazione letteraria nata dall’associazione «Dante Alighieri» di Lugano che, da sei anni, propone ai primi di settembre L’arte di raccontare: un classico e voci contemporanee. Quanto a me, mi occupo da quattro anni, con Silvia e con l’illustre cappello istituzionale del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, dell’appendice locarnese della manifestazione, che si rivolge agli allievi delle classi terminali della scuola elementare e che «si limita» alla presentazione del Classico di turno.

Così nel 2013 abbiamo affrontato Giovanni Boccaccio e il «Decamerone» («Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo»), nel 2014 siamo passati a Leonardo da Vinci («La cosa immaginata move il senso»), e l’anno scorso è stata la volta di Publio Ovidio Nasone («Metamorfosi – Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone»). Riguardo a quell’edizione rammento, in questo sito, «Perque omnia sæcula vivam!», «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» e «Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein».

Oliviero Giovannoni
Oliviero Giovannoni

Non fraintendiamo: non tutto è filato liscio. Dopo un’estate stupenda che si stava prolungando e che sembrava volesse durare all’infinito (La pagaremm püsee in là), una settimana prima della nostra scadenza Meteo Svizzera ha cominciato a insinuare che giovedì, proprio il nostro giovedì, sarebbe piovuto. Incredibile. Ancora il giorno prima splendevano tre o quattro soli e le temperature invitavano ai bagni e alle spiagge. Noi avevamo pensato di far rivivere Don Chisciotte in alcune evocative piazze locarnesi – il chiostro dell’ex convento dei frati, oggi scuola magistrale; la corte interna del castello visconteo; il mercato di Piazza Grande; il patio della biblioteca cantonale – e invece ci toccava inventare all’ultimo minuto, e immersi nell’incredulità, una nuova versione al coperto, dentro il Teatro di Locarno.

Un amico di Meteo Svizzera, il sabato precedente, 10 settembre!, mi ha scritto che effettivamente avevo scelto male il giorno in cui organizzare la manifestazione e che sicuramente Don Chisciotte avrebbe avuto una qualche colorita espressione in castigliano stretto per definire la fortuna in un caso simile.

Sara Giluvi è Mari, la cameriera dell'investitura
Sara Giluvi è Mari, la cameriera della locanda in cui Don Chisciotte diventò Cavaliere con tutti i crismi e le formule specifiche.

Detto ciò, quel piovoso giovedì 15 mi e ci ha lasciato alcune sensazioni incredibili e incancellabili, malgrado le ansie della vigilia, quando siamo stati costretti, ancora scettici, a inventarci una nuova scaletta, lontana dalle piazze.

Il Teatro di Locarno, stipato in ogni ordine di posti – c’erano 25 classi, provenienti da più parti del cantone, quasi 520 persone tra allievi e insegnanti – ha pulsato per l’intera durata dello spettacolo: un pubblico preparato e attento, capace della massima concentrazione nei momenti difficili, dell’applauso quando ci voleva (con dei momenti da stadio!), del giusto pathos nei passaggi più emozionanti e, diciamolo, intellettuali.

Cristina Zamboni, Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali, Sancho Panza
Cristina Zamboni è Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali è Sancho Panza

Tutto ciò, tutto questo successo, è probabilmente dovuto a una lunga serie di scelte precise e di circostanze per nulla casuali. Metterei al primo posto il grande rispetto che tutti i partecipanti a questa proposta, ma proprio tutti!, hanno riservato al numeroso pubblico di ragazzini di 4ª e 5ª elementare: che non sono dei cretini, ma dei futuri cittadini, che meritano la giusta fiducia e la massima stima. Il secondo gradino del podio, con un distacco di pochi centesimi, è riservato ai loro insegnanti, che hanno scelto di portare le loro classi a condividere la nostra proposta artistica e letteraria, e che li hanno preparati a dovere.

Poi, in ordine sparso, c’è un ex aequo molto affollato, che voglio evocare alla rinfusa, senza pedanteria, rifuggendo intenzionalmente dalle stupide classificazioni e classifiche tipiche della scuola, anche quella odierna e anche, purtroppo e probabilmente, quella che verrà, a regime ormai HarmonizzatoS.

Vale a dire:

Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
  • Miguel de Cervantes, l’autore dei due corposi volumi che compongono quel capolavoro della letteratura europea che è «Don Quijote de la Mancha».
  • Silvia Demartini, che ha saputo scegliere i “racconti” più significativi ed emblematici del Don Chisciotte, riscriverli per il nostro pubblico particolare e creare i collegamenti drammaturgici che ne hanno permesso la comprensione, dentro un disegno compatto e finito: perché ai nostri decenni non potevamo, né volevamo, offrire l’ennesima versione dell’ingegnoso nobiluomo un po’ comico e tanto stupidotto.
Giovanni Galfetti
Giovanni Galfetti
  • Un cast di attori e lettori di assoluta bravura. In rigoroso ordine alfabetico, benché ladies first (amen, per certi versi sono un po’ all’antica): Sara Giulivi, che è stata Mari, la cameriera della locanda dove il Cavaliere è diventato cavaliere sul serio, tramite la cerimonia dell’investitura; Tatiana Winteler, un’Aldonza Lorenzo figlia di Lorenzo Corciuelo straordinaria e verosimile, che sembrava sul serio Dulcinea del Toboso, così come l’avevano conosciuta Don Chisciotte e, soprattutto, Sancho Panza; Cristina Zamboni, una credibile, sdegnata e arrabbiatissima Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte; Fabio Doriali, che è stato un integerrimo presentatore – forse lo stesso Cervantes – e ha dato voce e fattezze a un Sancho Panza talmente zotico da sembrare vero (mi verrebbe un paragone con la politica dei giorni nostri: ma transeat).
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
  • Simone Fornara, un attore dilettante, a tal punto preoccupato che, dietro le quinte e in procinto di entrare in scena, si è rivelato il degno e coerente finale della nostra costruzione artistica e anche didattica (un aggettivo che normalmente detesto). Ha detto, stralunato e credibile, rivolto al pubblico: «Quando vi diranno che i libri mettono in testa strane idee e fanno pensare troppo, LEGGETELI, leggeteli a fondo: vi salveranno dalla banalità; quando vi diranno che le vostre battaglie per un mondo migliore e più giusto sono assurde, CREDETECI e combattetele fino in fondo, senza paura di farvi male; quando vi diranno che siete matti per amore, allora AMATE ancora più intensamente: chi dovrà capire capirà; e quando vi diranno che sognate di essere qualcuno e magari vi prenderanno in giro per quello che fate o per come vi vestite, be’, allora FIDATEVI DI VOI senza paura. Solo così il vostro personaggio smetterà di essere solo finzione».
  • Tre musicisti appassionati e immersi nella nostra storia: il fisarmonicista Daniele Dell’Agnola, il pianista Giovanni Galfetti e il percussionista Oliviero Giovannoni.
Simona Maisser
Simona Maisser
  • Simona Meisser, che ha disegnato le storie in diretta. Una maestra mi ha scritto: «Quei bambini che di solito sono un po’ deboli nell’ascolto, sono riusciti a seguire il tutto grazie alla magia delle immagini di Simona».
  • Dietro le quinte, al riparo dall’occhio di bue, ma ognuno con un ruolo importante, una moltitudine di persone: Fiorenza Wiedmann, splendida costumista, scenografa e trovarobe; le amiche e gli amici del DFA della SUPSI, cioè Stephanie Grosslercher, Kata Lucic, Luca Botturi, Dina Leal, Antonio Crupi e Thierry Moro; la città di Locarno e i suoi uomini delle manifestazioni, Mauro Beffa ed Eros Ceccato; la voce di Marco Fasola, per gentile concessione della RSI; Werner Walther, competente tuttofare del Teatro, nonché esperto e fantasioso tecnico delle luci e del suono.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
  • E, infine, chi ci sostiene, ci ha sostenuto e continuerà a sostenerci concretamente: Raffaela Castagnola, ideatrice e motore principale di «Piazzaparola»; Michele Mainardi, direttore del DFA della SUPSI; la SYZ Banque privée di Locarno.

Per il 2017 staremo a vedere cosa succederà, cosa ci sarà proposto. A volte è bello poter scegliere. Ma, lo confesso, saltare in groppa alle sfide che ci sono state proposte in questi anni è stato comunque sempre utile e divertente: penso a Boccaccio, Ovidio e de Cervantes, ma anche a Leonardo, non certo famoso per l’opera letteraria: mica facile, né evidente, riuscire a presentarli a ragazzini di dieci anni, non è esattamente come rifilare i fratelli Grimm o Hans Christian Andersen.

Daniele Dell'Agnola
Daniele Dell’Agnola

Poi, per dirla tutta (chi segue il mio sito sa bene cosa ne penso), le arti hanno bisogno di spazi nella scuola – spazi qualificati, non semplici alibi culturali – sebbene i posti a disposizione siano sempre più scarsi e i biglietti d’entrata discriminatori e costosi. Continuo a credere che la scuola, soprattutto quella pubblica e obbligatoria, dovrebbe creare tante e tante occasioni di incontro con le arti, senza scopi più o meno occulti per far strada a chi si avvierà a diventare uno scienziato, un notabile della Repubblica o un semplice galoppino.

Come ho scritto recentemente, in relazione alla riapertura dell’anno scolastico dopo un’estate di terrorismi e di crimini, «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, prendere esempi dalla storia (…) può essere utile per contribuire a far indietreggiare la barbarie».

Ma anche a rendere migliore la vita di ognuno di noi.

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Le foto sono del REC (Risorse didattiche, eventi e comunicazione) del DFA/SUPSI.

La scuola dell’obbligo tra memoria e cambiamenti

Le scuole comunali stanno vivendo cambiamenti molto significativi. Tanto per dire, HarmoS ha spostato indietro di due anni l’inizio della scuola obbligatoria e ha generato dei nuovi piani di studio, che non si limitano a precisare e completare materie di studio e obiettivi specifici, ma propongono pure una specie di rivoluzione copernicana dell’approccio didattico, con le competenze trasversali e i contesti di formazione generale. Insomma, non certo minuzie. Parallelamente è in atto un ricambio generazionale di dimensioni incredibili, tanto che anche il DFA ha dovuto riorganizzare il percorso di formazione dei futuri maestri per affrontare la grave penuria di insegnanti, soprattutto di scuola elementare. Tra le tante mutazioni non si può sorvolare sulla riorganizzazione dei quadri direttivi: da un lato stanno diminuendo gli ispettori, che sono altresì confrontati con un riesame dei loro compiti; dall’altro i direttori hanno ereditato le mansioni tolte agli ispettori e sono notevolmente cresciuti di numero: oggi sono una sessantina, e coprono la totalità degli istituti scolastici comunali, un centinaio tra grandi e piccoli.

Sarà curioso vedere come questa macchina così complessa riuscirà a gestire i tanti cambiamenti, per garantire alla scuola dei comuni il suo buon livello educativo e formativo, assieme a quell’ambiente sereno che ha distinto la storia secolare di un’istituzione radicata nei paesi, nei borghi e nei quartieri: perché siamo di fronte a modifiche di sostanza, mica a un tenue maquillage. Non sarà facile mantenere la barra al centro, anche perché in tempi assai brevi andrà perduta quella memoria storica così tipica di ogni istituzione umanista e intergenerazionale, di cui la scuola dei comuni è senz’altro una testimonianza esemplare. Mi ha molto colpito l’intervista al direttore delle scuole di Massagno pubblicata da «La Regione» circa un mese fa: Fabrizio Quadranti, che andrà in pensione dopo quarant’anni di attività, ha raccontato due «cose» importanti, due cose che non si possono dimenticare. «Da allievo – ha raccontato – ebbi come docente un grande rivoluzionario, e per me fu una fortuna. Arrivò il primo allievo straniero, Fernando, uno spagnolo, e il maestro mi disse fallo copiare, che così impara». È un principio pedagogico di estrema potenza, anche se la scuola fa spallucce sempre più spesso. È un principio che contribuisce a educare e facilita la comprensione e l’acquisizione di conoscenze e competenze. È un principio che mette al primo posto il vero compito del maestro, quello di educare insegnando. È un principio di cui curarsi con tanta attenzione, perché soffre già molto per le incessanti valutazioni, tempo rubato al fare scuola.

Per chiudere il colloquio col giornalista, Quadranti si è rivolto ai maestri, esortandoli «a parlare sempre all’ultimo della classe», perché «come diceva don Milani, una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani». Non sono un passatista, ma è doveroso custodire i fondamenti della scuola e dell’educazione. Sarebbe un peccato mortale se le grandi tensioni etiche che hanno caratterizzato tanta storia della pedagogia finissero nel tritatutto di certo utilitarismo purtroppo di moda. Perché fare scuola, e farla bene, è sì questione di cultura e di competenze professionali: ma prima di tutto servono rispetto, tenacia e una giusta dose di utopia, per credere che ognuno ce la può fare, anche se è nato senza la camicia.

Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi

Parrebbe che ai piani alti del nostro dipartimento dell’educazione ci sia un po’ di nervosismo. O, almeno, il clima sembra un po’ concitato. A inizio ottobre è apparsa sul Corriere una lettera aperta a Manuele Bertoli, direttore del DECS, con qualche domanda critica relativa all’obbligo della frequenza per i bambini di quattro anni. È una delle novità dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, noto come HarmoS, che sta muovendo i primi passi proprio quest’anno scolastico.

La risposta del ministro, un po’ piccata ma rassicurante, è giunta di corsa. Passa un giorno ed ecco una fulminante opinione di Lauro Tognola, uomo di scuola ora in pensione. Siamo ancora dalle parti di HarmoS e Tognola spara ad alzo zero sul «Piano di studio della scuola dell’obbligo», di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la «rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica» o la «pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare», tanto per dirne un paio.

Anche stavolta, nel giro di ventiquattr’ore, giunge la risposta di Bertoli, che parte proprio dalla lingua del documento: «Può darsi – concede il ministro – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti».

Il problema non è la qualità letteraria del Piano o lo slancio appassionato che la trama del racconto dovrebbe scatenare. Tuttavia l’intreccio ha le sue singolarità e il linguaggio, qua e là, è ostile, condito con dosi smodate d’un pedagogichese fumoso benché di moda: ciò che non contribuisce a spianare la strada all’intento dichiarato di «affrontare la formazione in modo esplicito».

La chiarezza e il divieto perentorio di equivocare, o di interpretare secondo i propri comodi, sono irrinunciabili, soprattutto se si intende dar vita a una svolta storica, che rivolti la scuola come un calzino e, con alcune mosse ben studiate, dia scacco matto a tutti i suoi problemi, a partire dalla pesante selezione che interviene già dopo la seconda media, benché sia socialmente predisposta con largo anticipo.

Questo è l’anno del passaggio concreto ad HarmoS e ai suoi comandamenti. Poi ci si immergerà nell’ormai celebre «Scuola che verrà», un progetto che sarà presentato in primavera, dopo il lancio pubblicitario di un anno fa.

Non so da dove salti fuori questa fregola della rivoluzione copernicana a tutti i costi. Per iniziare sarebbe stato più utile avere il coraggio politico di metter mano alla Legge della scuola, per chiarire se la scuola dev’essere al servizio del Paese, dell’economia e della finanza, o di chi altro. In altre parole, bisognerebbe dichiarare a chiare lettere se la scolarizzazione obbligatoria a quattro anni deve mirare con determinazione alla formazione di base elevata di ogni futuro cittadino, oppure se sia più conveniente intervenire precocemente sulla selezione degli individui in base a criteri tutti da definire (si potrebbe chiedere ad Avenir Suisse, a costo zero).

Chi segue questa rubrica sa da che parte sto. I programmi della scuola dell’obbligo chiamano a gran voce essenzialità e chiarezza. Qualcuno, frattanto, dovrà spiegarci quando, come e con quali mezzi si procederà all’informazione dei docenti sul nuovo Piano di studi, come supplemento alla normale formazione continua.

Sui livelli della scuola media: il grande equivoco

Sulla proposta dei Verdi di abolire i cosiddetti livelli della scuola media il parlamento sta scaldando i motori. Nelle ultime settimane si è letto e ascoltato tanto e di tutto. Il 25 marzo la RSI ha dedicato la rubrica radiofonica «Millevoci» a questo tema, in una sorta di riassunto della problematica e delle posizioni. Condotta da Isabella Visetti, la trasmissione ha ospitato Franco Celio, gran consigliere del PLR, membro della Commissione scolastica, relatore del rapporto di maggioranza (contrario all’abolizione dei livelli); Michele Guerra, gran consigliere della Lega dei ticinesi, presidente della Commissione scolastica e relatore del rapporto di minoranza (ovviamente favorevole); e Emanuele Berger, direttore della Divisione della scuola del DECS.

L’iniziativa dei Verdi sa di sasso nello stagno. Non si propongono soluzioni puntuali. È però vero che lo stesso ministro Manuele Bertoli, all’indomani della presentazione dell’iniziativa, aveva onestamente dichiarato che conveniva discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Ma ora che il Gran consiglio è finalmente chiamato a prendere posizione, si mette in campo l’esercito, citando i soliti esperti non meglio identificati (magari mi sbaglio, ma sto pensando ai soliti culi di pietra) e allestendo una gran sceneggiata, chiedendo tempo in attesa della Riforma 4 e via tergiversando: l’importante è che le riforme facciano il loro corso affinché nulla cambi. Gattopardescamente.

In effetti dietro tutta ’sta difesa dei livelli della scuola media, peraltro circoscritta a due sole discipline, c’è un grande imbroglio, la madre di tutti gli equivoci contrabbandata per verità “scientifica”. A sentire lor signori si sarebbe indotti a credere che basterà trovare la giusta procedura affinché tutto funzioni e la maggior parte degli allievi impari quel che c’è da imparare, vale a dire ciò che è contemplato dal Piano di formazione della scuola media, un documento di ben 163 pagine che stabilisce cosa gli allievi devono (forse) imparare. Già a livello di contenuti c’è molto da discutere. Si tenga altresì conto del fatto che il piano di formazione presente nel sito del DECS è solo un «quadro di riferimento che deve permettere all’autorità politica e all’amministrazione scolastica di stabilire i confini dell’azione dei singoli istituti con l’indicazione dei principali obiettivi e orientamenti a cui tutti devono attenersi per garantire alla scuola la necessaria coesione e una formazione equivalente in tutto il Cantone». I dettagli, invece, sono da un’altra parte e, stando sempre al sito del dipartimento, «Negli ultimi anni l’autonomia dei singoli istituti scolastici è stata valorizzata tenendo conto delle particolarità delle sedi e delle esigenze degli allievi», così che «Ne risulta una ridefinizione dell’equilibrio tra la conduzione centrale, a livello cantonale, e la gestione periferica che chiama i singoli istituti a darsi, con maggiore responsabilità, un proprio profilo»: ergo, è vieppiù difficile capire bene e nel dettaglio cosa si è tenuti a sapere.

Nell’articolo «Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco» ho toccato diversi aspetti che hanno a che fare anche col problema dei livelli. Ho citato, ad esempio, il Teorema di Pitagora, un contenuto classico della scuola media: uno di quegli obiettivi scolastici che possono essere affascinanti per avvicinare i giovani all’esercizio della speculazione intellettuale e allo sviluppo della forma mentis, ma che diventano una micidiale arma impropria nel momento in cui fantasiosi problemi di matematica diventano argomento di test e contribuiscono a decretare la nota scolastica della disciplina. Naturalmente avrei potuto fare tanti altri esempi tratti da pressoché tutte le discipline. Per intenderci, anche Leopardi ha pari dignità di Pitagora, tanto che sembrano almeno perverse certe richieste sulla metrica e le figure metaforiche e poetiche che spesso si incontrano nei famosi test che scandiscono gli anni scolastici. E così via esemplificando.

A dirla tutta: qualcuno crede davvero che un normale allievo di scuola media può acquisire tutte quelle nozioni lì (pardon: competenze!) in quattro anni, con settimane di 33 ore per 36.5 settimane annue, alle quali si aggiungono vagonate di compiti a domicilio, in settimana e assai spesso durante le vacanze scolastiche? Oppure siamo d’accordo che i migliori studenti impareranno solo una parte dell’intero elenco di nozioni e/o competenze e, in quanto primi della classe, sanciranno la norma di riferimento per tutti gli altri?

Insomma: tra valutare e insegnare c’è una bella differenza, ed è inutile fingere che gli insegnanti insegnano e che se gli allievi non imparano è colpa della loro pigrizia o di un quoziente intellettuale sgarrupato. Chissà perché, mi viene in mente una pagina dell’emozionante «Lettera a una professoressa»:

 Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo.

Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola.

Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla.

Io in quelle condizioni sono anche a casa. Nessuno cui rivolgermi per chilometri intorno. Non un libro di più. Non un telefono.

Ora invece siamo a «scuola». Sono venuto apposta, di lontano. Non c’è la mamma, che ha promesso che starà zitta e poi mi interrompe cento volte. Non c’è il bambino della mia sorella che ha bisogno d’aiuto per i compiti. C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me.

E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi.

E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.

Forse l’abolizione dei livelli – una perfida eredità della scuola media da quando, nel 1974, sostituì scuola maggiore e ginnasio – sarebbe per davvero un salutare sasso nello stagno, che costringerebbe a occuparsi dell’essenzialità dei programmi (pardon, del piano di formazione) e a smetterla di dissipare così tanto tempo nella valutazione. Un tempo scippato all’insegnamento.

Magari tra la «Riforma 4» e l’arrivo dei nuovi piani di formazione per la scuola dell’obbligo (HarmoS) tutto si sistemerà come per magia. Ne sapremo di più quando attorno a questi due Carneade si farà un po’ di chiarezza.

Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco

Lo scopo di una partita di calcio è quello di segnare più reti dell’avversario. Nei canonici 90 minuti di durata di una partita, recuperi esclusi, è chiaro a ognuno quali sono le regole del gioco. È chiaro per gli arbitri, i giocatori e il pubblico – a meno che uno sia capitato per caso allo stadio, un po’ come se io andassi a una partita di baseball tanto per vedere, da turista, che aria si respira. Così, ad esempio, il fuori gioco è definito in termini molto precisi, e con altrettanta puntigliosità i «governanti e i parlamentari» del calcio stabiliscono con chiarezza quando si va alla rimessa laterale, cosa è lecito e cosa non lo è nei contrasti con l’avversario, quando si rischia l’espulsione o è necessario tirare un calcio di rigore. Poi, anche in questo caso come in tutte le umane vicende, non è possibile prevedere tutto. Così capita che un giocatore riesca a farla franca, o che il direttore di gioco si faccia turlupinare dall’attaccante che rantola sul terreno da gioco senza che nessuno l’abbia nemmeno sfiorato. Chi non ricorda il gol di Maradona con le mani al mondiale messicano del 1986?

La partita di calcio, ha detto qualcuno, è la simulazione di una battaglia, il cui scopo fondamentale è di vincere, divertendo e divertendosi, affinché altre battaglie possano essere combattute.

 

Le regole del gioco

Anche la scuola, mi si passi il paragone, potrebbe per certi versi assomigliare a una partita di calcio. Ma due differenze sono sostanziali. La prima è che la scuola – e mi riferisco alla scuola dell’obbligo – è una partita per la vita che si gioca una volta sola, soprattutto se non si ha avuto la fortuna di nascere con la camicia, nel ceto giusto. La seconda, ben più importante, è che le regole fondamentali sono tutt’altro che chiare, benché testi costituzionali, leggi, regolamenti, decreti, norme, programmi e via di seguito siano certamente più corposi dei regolamenti del calcio.

Prendiamo un esempio. I «Programmi per la scuola elementare» attualmente in vigore dicono a chiare lettere che vi sono alcuni obiettivi che tutti gli allievi devono raggiungere. «Gli obiettivi di padronanza – vi si legge a pagina 91 – indicano ciò che ogni allievo dovrebbe essere in grado di fare con sicurezza al termine del primo e del secondo ciclo. […] Gli obiettivi di padronanza costituiscono quindi un impegno che la scuola assume nei confronti degli allievi e delle loro famiglie, e svolgono, perciò, una duplice funzione: informano le famiglie e gli insegnanti dell’ordine scolastico successivo di ciò che deve considerarsi acquisito nel corso della scuola elementare; richiamano all’insegnante il dovere di prodigarsi perché anche gli allievi con maggiori difficoltà di apprendimento possano conseguire, per questi obiettivi, il livello di padronanza indicato.» Così, tra gli obiettivi di padronanza, troviamo cosa l’allievo dev’essere in grado di padroneggiare in scrittura alla fine della II elementare. Egli deve «Saper scrivere brevi testi, usando le parole appropriate, con frasi chiare nella costruzione e corrette nell’ortografia, limitatamente ai casi più semplici e senza esigere la sicurezza assoluta nell’uso delle doppie, dell’h nelle forme verbali, dell’apostrofo e dell’accento. Usare correttamente il punto, dimostrando ad esempio di saper inserire i punti mancanti in un semplice testo e di individuare le frasi di senso compiuto.»

Chiaro? Mica tanto, a dirla tutta. Quanto breve dovrà essere un breve testo? Quali saranno le parole appropriate e quali, invece, quelle non conformi? Fino a che punto ci si può spingere sul piano della correttezza ortografica? La soluzione più frequente è che ogni insegnante raffigura nella sua testa la soglia di padronanza, che equivale poi alla sufficienza (nota 4). A partire da quell’empirico punto di riferimento assegnerà poi le valutazioni verso il basso e verso l’alto (e sarebbe bello, una volta, leggere una chiara descrizione della soglia di padronanza, affiancata dalle sfumature che contribuiscono a gonfiare il misero quattro fino a farlo diventare un sei tondo tondo). Ora si tenga conto che già per assegnare la nota di italiano non ci si può limitare a verificare quest’unico obiettivo, ma bisogna dare una valutazione anche alle capacità orali, di ascolto e di lettura. La medesima operazione andrà ripetuta per ogni disciplina che richiede una nota – e, lo si può bene immaginare, le cose si complicano maledettamente mano a mano che passano gli anni di scuola e ci si avvicina alla quarta media.

 

La valutazione: un azzardo?

La definizione chiara di un obiettivo, inoltre, non si traduce ancora in una valutazione scientificamente oggettiva. Tante altre variabili, in effetti, concorrono a far sì che le valutazioni ottenute da un allievo non garantiscano nella realtà il raggiungimento del tale o del tal altro obiettivo: dall’inadeguatezza dei sistemi di valutazione impiegati, a un insegnamento manchevole, a scelte didattiche sbagliate. Si aggiunga poi la ben nota «indifferenza alle differenze», di cui già parlava Pierre Bourdieu quasi cinquant’anni fa. Con l’imbroglio delle «pari opportunità», e con l’esistenza stessa del meccanismo della promozione da una classe all’altra, «…la scuola trasforma differenze e disuguaglianze di diversa derivazione in insuccessi e riuscite scolastiche. Se a sei anni alcuni bambini sanno già leggere, mentre altri sono ancora molto distanti, si esige che tutti sappiano leggere circa un anno più tardi. Questa indifferenza alle differenze [Bourdieu, 1966[1]], propria della scuola, contrasta col trattamento differenziato delle persone nel campo della sanità, della giustizia, del lavoro sociale, tanto per citare qualche esempio.»[2] Eppure il tema della differenziazione dell’insegnamento non è propriamente una trovata più o meno utopica ed estemporanea di quest’ultimi anni, ma vanta una lunga serie di esperienze e di importanti riflessioni. E, d’altra parte, vi sono docenti che organizzano il loro insegnamento proprio centrando la loro attenzione pedagogica su questo basilare principio: si pensi, ad esempio, alla correzione interattiva del testo di un alunno, in luogo della correzione differita dei testi dell’intera classe; alla somministrazione mirata e adeguata di esercizi, al posto di esercizi identici per tutti; al primato del lavoro attivo dell’allievo, invece dell’ascolto fors’anche passivo di lezioni ex cathedra.

Philippe Meirieu ha annotato che «Per fortuna non è la scuola che insegna a camminare ai bambini, sennò la popolazione sarebbe formata da un terzo di buoni camminatori, un terzo di zoppi e un terzo di persone costrette a stare a letto!»[3] Camminare, in effetti, è un’operazione complessa, che non s’impara in quattro e quattr’otto, così come non si impara in un battibaleno a mangiare autonomamente col cucchiaio oppure a parlare. Statisticamente si inizia a camminare attorno all’età di dodici mesi. La statistica, per definizione, suggerisce che ciò può avvenire prima o dopo l’età indicata, che, in quanto media, si riferisce grosso modo al 70% dei bambini. Il genitore attento osserverà suo figlio e lo aiuterà a passare dal gattonare allo stare in piedi e poi a camminare al momento che gli sembrerà opportuno. Non è detto che Usain Bolt abbia iniziato a camminare con largo anticipo, né che Luciano Pavarotti strillasse meglio degli altri a poche ore dalla nascita. Sappiamo bene che la crescita di un individuo è il frutto di elementi endogeni ed esogeni. Tagliando un po’ con l’accetta, nella prima categoria metteremo le caratteristiche fisiche e mentali dell’individuo, ricevute per trasmissione genetica; nelle seconde le esperienze vissute dalla nascita in poi, alcune del tutto fortuite, altre frutto di un meditato e consapevole stimolo (insegnamento).

D’altro canto conosciamo bene gli effetti perversi che possono scaturire dall’analisi molto approfondita degli obiettivi scolastici, che per forza di cose cominciano con l’escludere tutto ciò che è di complessa valutazione, soprattutto attraverso i soliti strumenti, quali il tradizionale test o l’interrogazione. È inoltre doveroso rammentare in ogni momento che la scuola è un luogo di educazione formale, che intende insegnare o far apprendere delle conoscenze, delle nozioni, delle attitudini o delle capacità in un ambiente fortemente artificiale. Sono abbastanza note talune esperienze condotte sin dagli anni ’80 sulle competenze matematiche acquisite «on the job», sul lavoro, rispetto al classico apprendimento scolastico, per lo più di natura teorica[4]:

Numerose ricerche dimostrano la ricchezza dei saperi acquisiti fuori dalla scuola. Nel campo della matematica, ad esempio, gli analfabeti non sono necessariamente ignoranti. Essi possono risolvere problemi che richiedono dei calcoli, a volte abbastanza complessi, anche se gli algoritmi sono spesso limitati: si conta sulle dita, per esempio, e la moltiplicazione è sostituita da addizioni in sequenza. In tal modo il calcolo (mentale o orale) è spesso più lungo, più complicato, limitato ai numeri più abituali. Invece che manipolare simboli, si manipolano quantità, vale a dire delle cifre con un significato effettivo, e il risultato è immediatamente valutato in rapporto alla realtà. A scuola, per contro, l’allievo manipola per lo più dei simboli, con degli algoritmi che ricordano a volte dei ritornelli, e il risultato è confrontato solo raramente con la realtà.

Tramite una ricerca svolta a Recife, in Brasile, Nunes, Schliemann e Carraher (1993) hanno osservato dei bambini che vendevano frutta al mercato. I ricercatori hanno posto, in situazione spontanea, una serie di problemi basati sul calcolo (del tipo: quanto costano 10 ananas da 35 cruzeiros l’uno?). In seguito hanno sottoposto a quegli stessi bambini i medesimi calcoli in versione più scolastica. Mentre il 98% dei calcoli era giusto al mercato, la riuscita scendeva al 73% se gli stessi calcoli erano posti sottoforma di problemi, e solo al 37% chiedendo le operazioni fuori contesto. In un altro studio degli stessi ricercatori, si è rilevato che alcuni bambini che utilizzavano a scuola delle strategie «orali» (della strada) per la moltiplicazione, riuscivano al 100%, contro il 39% con le strategie scritte.

Naturalmente si potrebbero ricamare tante considerazioni attorno a ricerche come questa. Ciò mette comunque in luce almeno due aspetti fondamentali dell’insegnamento scolastico: il primo, che vi è sovente un più o meno alto grado di confusione tra i dati reali e la loro simbolizzazione; il secondo, che in parte può scaturire dal primo, che la conoscenza astratta può prescindere dalla comprensione adeguata dell’algoritmo, semplicemente memorizzando le strategie simboliche richieste dalla scuola. E, d’altra parte, Ivan Illich, il grande descolarizzatore, osservava che «Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola non mettono mai piede.

È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante. Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro».[5]

 

Tempi moderni: un nuovo paradigma antropologico

E ancora: oggi siamo forse immersi in quella mutazione antropologica di cui parlava Pier Paolo Pasolini già nei primi anni ’70, per descrivere l’omologazione della società italiana attraverso i cambiamenti sociali e culturali prodotti dalla massificazione televisiva[6]. «L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una “falsa” uguaglianza ricevuta in regalo. Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati, i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività gergale), è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva.»

Oltre a ciò nel corso degli anni è cresciuta a dismisura e si è fatta più variata l’offerta televisiva, alla quale è necessario aggiungere tutto ciò che può essere consumato sui computer, schermi dietro ai quali i nostri allievi trascorrono ore innumerevoli. «L’esperienza della lettura e quella televisiva presentano (…) molte (…) differenze: una è legata alla capacità di concentrazione richiesta dalla lettura, che, proprio per le complesse operazioni mentali che implica, è estremamente superiore rispetto al guardare la televisione, che implica soltanto una disponibilità ad assorbire messaggi e immagini. Una seconda differenza riguarda il ritmo, estremamente individuale nella lettura, che lascia spazio a rallentamenti, accelerazioni, ritorni all’indietro ecc., mentre in televisione il ritmo è imposto dall’esterno e non può essere variato, sia che un programma sia interessante, sia che sia noioso, sia che richieda una chiarificazione e quindi un ritorno indietro: in televisione si può andare soltanto in una direzione, in avanti, seguendo un ritmo che è uguale per tutti e che non risente della nostra momentanea capacità di attenzione. Attraverso la lettura noi creiamo le immagini cui allude un testo e la nostra creatività viene stimolata nel momento in cui leggiamo: la lettura, insomma, libera l’immaginazione e fa lavorare la nostra mente. A differenza della lettura, altre esperienze basate su un mondo fatto di immagini, come la televisione, hanno un minor potere evocativo e non mettono in moto strutture e funzioni addette alla logica del linguaggio. Per dirla con le parole dello psicologo Bruno Bettelheim, l’esperienza televisiva è molto diversa in quanto “la televisione cattura l’immaginazione ma non la libera, mentre un buon libro stimola e libera la mente”.»[7]

Tant’è, è inutile far finta che questi fenomeni non esistano e che sia possibile continuare a organizzare l’insegnamento «come se…», tanto più che il bombardamento massmediatico non colpisce certamente solo i nostri allievi, ma concerne anche i loro genitori, i loro insegnanti e i nostri politici. Nelle nostre aule, tuttavia, cresce il numero di allievi fin troppo vivaci, che faticano a concentrarsi, a ricordare, ad ascoltare, a dedicarsi al compito con la necessaria attenzione; e che, col crescere dell’età, manifestano vieppiù comportamenti tanto esuberanti, da sconfinare sovente nel «problematico».

 

La scuola dell’obbligo e la preparazione alla vita

Tutto quanto precede deve poi per forza di cose confrontarsi con i programmi di studio degli attuali due settori della scuola dell’obbligo, che si trasformeranno in un «nuovo» piano di studio in vista dell’introduzione di HarmoS. Le virgolette non sono casuali, perché è difficile immaginare chissà quali stravolgimenti. Benché la scuola dell’obbligo debba prevedere l’insegnamento di alcune competenze fondamentali, sappiamo che alcune discipline sono più «fondamentali» di altre, così come siamo consapevoli che, all’interno di ogni disciplina, è difficile capire cosa sia per davvero necessario conoscere entro i quindici anni e cosa, invece, potrebbe essere indispensabile solo a determinate condizioni, come ad esempio imboccare la via degli studi superiori fino all’università.

È noto, ad esempio, che nella scuola elementare l’italiano e la matematica sono più «fondamentali» delle altre discipline, soprattutto in termini di valutazioni finali e di selezione. Ma anche nella scuola media questo fenomeno è ben presente, anche se non è formalizzato né, tanto meno, dichiarato. Ed è in particolare nella scuola media che crescono e si diffondono molti contenuti per nulla fondamentali nel contesto della scuola obbligatoria, seppur con alcune doverose precisazioni. Philippe Perrenoud, citando lo psicologo Christian Guillevic, fa un esempio un poco provocatorio[8]: «È sufficiente, per essere meglio preparati alla vita, che gli allievi imparino a mobilitare il teorema di Pitagora per risolvere dei problemi reali? Evidentemente si risponderebbe in modo affermativo se fosse necessario attivare di frequente il teorema di Pitagora nella nostra vita. Ma in realtà chi se ne serve, a parte quelli che esercitano una professione legata alla geometria? Taluni che se ne servono professionalmente, ad esempio i carpentieri, non conoscono quel teorema, ma applicano una regola che ne è solo una derivazione e che loro stessi sarebbero in difficoltà a spiegare: per verificare che due travi di un tetto formino un angolo retto, il carpentiere fa un segno su una trave a 6 dm dal vertice e un segno a 8 dm sull’altra. Tende poi una cordicella tra i due segni e misura la distanza che li separa. Se questa è esattamente di un metro, conclude che l’angolo è retto. A giusto titolo, poiché in effetti nel triangolo rettangolo virtuale così creato, il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei due lati dell’angolo retto (102 = 62 + 82, ovvero 100 = 36 + 64). La procedura funziona perché è fondata sul teorema di Pitagora, ma non c’è nessuna necessità di conoscerlo per servirsene in modo efficace».

Va da sé che non è certo nelle mie intenzioni – né, immagino, in quelle di Perrenoud – estendere concretamente tale ragionamento a tanti e tanti contenuti dei programmi scolastici, con un’azione un poco iconoclastica, ciò che, d’altra parte, rischierebbe di contribuire all’ampliamento ragguardevole della già estesa schiera dei Fachidioten, gli «idioti specializzati». Per coerenza, lo stralcio del teorema di Pitagora dai programmi della scuola dell’obbligo comporterebbe pure la cancellazione di tanti e tanti contenuti, forse di intere discipline: dalla letteratura alla poesia, dall’algebra alla musica, dalla biologia alla storia, è tutto un fiorire di conoscenze di cui, volendo, si può fare a meno. In realtà il problema non risiede nel teorema di Pitagora, né negli eucarioti o nella Svizzera dei 13 cantoni, e men che meno in Francesco Petrarca, Alessandro Manzoni, Johann Sebastian Bach o Michelangelo Buonarroti. Sul piano dell’arricchimento culturale e dello sviluppo della speculazione intellettuale e dello spirito critico servono ben altre conoscenze, che superano le competenze pratiche per preparare alla vita. Ma è palese che se tali conoscenze diventano le armi improprie della selezione scolastica, allora la scuola dell’obbligo vien meno al suo mandato. Lo stesso Perrenoud, inoltre, solleva un altro problema, legato ad alcune discipline ugualmente «utili» e importanti per la formazione dei futuri cittadini, discipline che, tuttavia, non fanno parte, se non sporadicamente e di straforo, dei programmi della scuola dell’obbligo, come la psicologia e la psicanalisi, la sociologia, le scienze politiche e quelle economiche, il diritto, la criminologia, l’architettura e l’urbanistica. [9]

La questione si pone naturalmente in tutta la sua complessità, tenuto conto che già oggi gli allievi della scuola media sono sottoposti a un carico orario molto (troppo?) elevato. Eppure l’elenco delle discipline ignorate dalla scuola dell’obbligo non può lasciare indifferenti. Ma come fare? Si immagini il putiferio che si scatenerebbe se solo il Dipartimento avviasse una procedura per ridurre di una quindicina di ore settimanali la dotazione oraria delle discipline attuali per far posto alle nuove. Le diverse lobby disciplinari ipotizzerebbero scenari apocalittici, con un Ticino del futuro deprivato di ingegneri, scienziati e letterati. E farebbero certamente presente che già oggi le ore riservate alle loro discipline è ampiamente insufficiente. I sindacati, dal canto loro, minaccerebbero scioperi e barricate, sommando apocalisse ad apocalisse. Insomma, sarebbe (è!) difficile modificare tradizioni e convinzioni, quasi sempre basate sulla (semplice) constatazione che «si è sempre fatto così».

 

Insegnare per competenze? A certe condizioni…

In tutto questo contesto di domande senza risposte convincenti, HarmoS e il conseguente nuovo piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese porteranno con sé anche l’insegnamento «per competenze». Non entro nel merito delle diverse definizioni che tentano di chiarire cosa possa significare, nel concreto, un funzionamento della scuola sulla base della costruzione di competenze piuttosto che, secondo una tradizione molto diffusa, sulle più identificabili conoscenze, quelle che prima del ’68 si chiamavano nozioni. Diversi sistemi scolastici del mondo occidentale sono stati sedotti dall’insegnamento per competenze, soprattutto da quando, negli ultimi anni del secolo scorso, diversi organismi internazionali, tra i quali l’OCSE, ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Per quel che mi concerne mi intriga la possibilità di organizzare l’insegnamento obbligatorio attraverso tematiche pedagogiche e didattiche marcatamente interdisciplinari. A pensarci bene, già Jean-Jacques Rousseau dispensava al suo Emilio un insegnamento che mirava alle competenze, così come in maniera analoga agiva Johann Heinrich Pestalozzi, così sensibile alle diverse dimensioni educative (la testa, il cuore, le mani). La stessa corrente nota come scuola attiva, quella dei Freinet, dei Lodi e dei Don Milani, aspirava a superare il nozionismo, utile più a chi dà le note che a chi le riceve, per affrontare dei percorsi pedagogico-didattici fortemente interdisciplinari, con tutte le loro ricchezze umane e umanistiche, nonché piuttosto efficaci anche sul piano delle conoscenze fondamentali.

In approcci di questo tipo, nondimeno, c’è un rovesciamento rilevante delle prospettive che guidano gli anni scolastici e le diverse programmazioni, a partire proprio dal tema della valutazione, tema che il «Gruppo direzione e coordinamento HarmoS» del nostro DECS ha ben presente. Insegnare per competenze, o per ambiti tematici, pone problemi di valutazione enormi. In un’organizzazione pedagogica di tal fatta non c’è posto per la selezione in vista della prosecuzione degli studi, con tutta la sua tradizionale tiritera di valutazioni sommative che scandiscono le settimane e i mesi, diventando in definitiva più importanti di ciò che si vuol valutare e inducendo negli allievi quell’attitudine perversa che li obbliga a studiare per i test e non per i contenuti più preziosi della scuola. Insegnare per competenze significa in primo luogo privilegiare l’educazione e la costruzione di conoscenze e di cultura, nell’accezione più ampia del termine, rispetto alla valutazione/classificazione di alcune nozioni o capacità. Per fare un esempio un po’ banale, è abbastanza facile, attraverso un esercizio mirato, verificare la conoscenza della coniugazione e della declinazione dei verbi. Una sequenza di frasi coi verbi all’infinito, da completare con modi e tempi corretti, permette solitamente di controllare se l’allievo ha metabolizzato la regola, ma non dice nulla sulla capacità del medesimo allievo di utilizzare un congiuntivo imperfetto quando si esprime oralmente o quando scrive una sua riflessione.

 

La realtà resiste ancora

Sappiamo fin troppo bene che la realtà resiste. La stessa scuola media è ancor oggi debitrice, a quasi quarant’anni di distanza dalla sua nascita, del peccato originale che la maggioranza del Parlamento aveva dovuto ingollare affinché la Legge passasse (le sezioni A e B, poi trasformatesi nel corso degli anni, mantenendo però intatto il progetto iniziale di selezione verso la scuola post-obbligatoria). E anche la scuola elementare non è passata indenne attraverso la più recente riforma di peso – la riforma dei programmi, approvati dal Consiglio di Stato nell’ormai lontanissimo 1984. Da un’organizzazione con l’Ambiente al centro dell’azione pedagogica, si è presto tornati alle discipline. E, dall’anno scorso, con gli applausi convinti di molti «addetti ai lavori», si è nuovamente introdotta la valutazione sommativa a metà anno – senza nota, ma con degli aggettivi: che sono più subdoli – in perfetta linea col settore scolastico successivo. Ora c’è solo da sperare che la scuola dell’infanzia, con l’obbligatorietà scolastica che la concerne in virtù di HarmoS, non si cali nel medesimo solco di continuità.

Anche se, in fondo, è la soluzione più facile e in linea con le nostre consuetudini.


[1] PIERRE BOURDIEU, «L’école conservatrice. L’inégalité sociale devant l’école et devant la culture », in Revue française de sociologie, 1966, N° 3

[2] PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences, 1995, Paris: ESF Éditeur (la traduzione italiana è mia)

[3] PHILIPPE MEIRIEU, MARC GUIRAUD, L’école ou la guerre civile, 1997, Paris: Édition Plon (la traduzione italiana è mia)

[4] PIERRE R. DASEN, «Développement humain et éducation informelle», in Pierre R. Dasen, Christiane Perregaux, Raisons éducatives N° 3/2000 – Pourquoi des approches interculturelles en sciences de l’éducation?, 2000, De Boek

[5] IVAN ILLICH, Deschooling Society, 1971, trad. it. Descolarizzare la società, 1972, Milano: Mondadori

[6] Si vedano, in particolare, «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia» (10 giugno 1974) e «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia» (11 luglio 1974, da cui è tratta la citazione nel testo), in PIER PAOLO PASOLINI, Scritti corsari, 1975, Aldo Garzanti Editore

[7] ALBERTO OLIVERIO, Memoria e oblio, 2003, Rubbettino Editore

[8] PHILIPPE PERRENOUD, Quand l’école prétend préparer à la vie… – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?, 2011, Paris: ESF Éditeur

[9] PHILIPPE PERRENOUD, 2011, Ibidem