Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Sottobanco», che Fabio Pusterla firma sul settimanale «Azione». Sul numero 10 di quest’anno, Pusterla si è nuovamente soffermato sull’importanza di sostenere l’insegnamento dell’italiano. Dal suo osservatorio di docente al liceo, si chiede retoricamente cosa significhi, nella realtà quotidiana, il fatto che «gli studenti, a ogni livello, sembrano oggi possedere un bagaglio linguistico minore di quello dei loro coetanei di venti o trent’anni fa», una situazione «come minimo allarmante», che «è stata discussa, studiata, monitorata». Portando come esempio la proposta di lettura del «Cinque Maggio», ben descrive la grande fatica che è necessario mettere in conto per aiutare gli studenti a sopperire alle loro manifeste lacune linguistiche e culturali. Esagerato, il prof. Pusterla? No, credibilissimo, se appena si considera che vi sono fior di studenti che entrano all’alta scuola pedagogica con l’ortografia che fa ampiamente cilecca. Che italiano insegneranno mai, una volta diventati maestri?
Ricordo che, durante la mia infanzia – diciamo a cavallo tra l’elementare e il ginnasio – mi ero divertito molto con letture indimenticabili. Penso su tutte alle «Avventure di Tom Sawyer» o ai «Ragazzi della Via Pal», senza ovviamente scordare le stupende storie di London, Verne, Stevenson, Malot, … La gran parte dei ragazzi di oggi non sono in grado, a quell’età, di affrontare da soli «Ventimila leghe sotto i mari», «Kim» o «Davide Copperfield»; e quando avranno (forse) raggiunto il livello di competenze linguistiche per percorrere romanzi come questi, cercheranno altre storie, più adatte alla loro età. Ergo: non li leggeranno mai. Nel frattempo si cimenteranno – si fa ovviamente per dire – con libri dal contenuto banale e dalla lingua scialba. Così non potranno crescere né linguisticamente, né culturalmente.
Sembra evidente che tutta la scuola, dall’elementare al liceo, abbia abbassato le sue pretese sul piano dell’insegnamento dell’italiano. I motivi di talune sciagurate scelte del passato più o meno recente sono difficili, ma non impossibili, da capire; oggi, poi, ci si mette anche l’editoria, che sforna titoli come noccioline senza curarsi troppo della loro essenza letteraria e pedagogica. Ho un collega, docente di italiano in un istituto terziario, che coltiva un passatempo stupendo: scrive libri per ragazzi. Mi ha raccontato che assai spesso le case editrici chiedono delle revisioni, poiché i testi sono giudicati troppo difficili. È una corsa al ribasso del tutto incomprensibile, che non permette nemmeno di capire chi, secondo le case editrici, potrebbe non acquistare questi libri perché troppo impegnativi: i maestri o i piccoli lettori?
«Insomma» conclude Pusterla, «il problema è gravissimo, e serve a poco dirsi che interessa l’intero Occidente; il Ticino ha se non altro un vantaggio: è piccolo». Concordo: se per davvero, al di là degli «alti lai», esiste la consapevolezza della drammaticità della situazione, allora non dovrebbe risultare così difficile metterci d’accordo un po’ in fretta e cominciare ad alzare l’asticella, dalla scuola dell’infanzia su su fino al liceo, non certo con l’intento restauratore di selezionare delle élite, ma con la dichiarata intenzione di imprimere un’impennata al livello linguistico medio di tutti i nostri allievi e studenti. Per il momento non serve molto: più che di astruserie didattiche e di complicati piani formativi per gli insegnanti, è necessario decidere che la lingua italiana è l’asse portante dell’educazione e dell’istruzione dei nostri ragazzi e giovani. Già questa dichiarazione, se non limitata al novero delle enunciazioni di facciata, sarebbe un potente strumento nelle mani della scuola. In ogni modo non è più ammissibile mettere l’italiano sul mercato della formazione, in balia d’ogni sorta di contrattazione, come se si trattasse di una materia qualsiasi. Perché è noto che meglio si legge, si scrive e si parla, meglio si pensa. Oppure è proprio questo che darebbe fastidio?
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La formazione degli insegnanti tra scienza e umanesimo
Per diventare insegnante di scuola dell’infanzia o elementare occorre frequentare l’Alta Scuola Pedagogica (ASP) per tre anni a tempo pieno, dopo aver conseguito la maturità. Se invece si vuole insegnare alla scuola media o al liceo, la permanenza all’ASP cala vistosamente: più o meno un annetto a metà tempo, dopo l’obbligatorio ottenimento di una licenza universitaria (o, per dirla alla moderna, di un “bachelor” o di un “master”): in effetti ogni abilitazione vale per l’insegnamento di un’unica disciplina, per cui il tempo di formazione sembra – almeno a naso – proporzionato. Ma l’equazione scricchiola, se appena si pensa che, accanto alla specifica didattica disciplinare, ben altre competenze dovrebbero far parte della cultura professionale dell’insegnante: nell’uno come nell’altro caso.
Un mese fa è apparsa anche su queste pagine la lettera di un gruppo di docenti di italiano che hanno ottenuto l’abilitazione all’insegnamento nel settore medio-superiore nel ’05 (Corriere del 5 maggio). Nello scritto – schietto, civile e amaro – i neo-docenti manifestano tutte le loro perplessità nei confronti di una formazione post-universitaria ritenuta inutile. «Abbiamo subito il protrarsi di una situazione davvero spiacevole, per cui settimana dopo settimana eravamo obbligati a frequentare un numero importante di lezioni incapaci di creare un diretto legame fra noi e la nostra professione, incapaci di fornire degli strumenti realmente in grado di migliorare il nostro rapporto con gli studenti, incapaci di costruire un sapere solido che consentisse di leggere la realtà scolastica e sociale». Considerato che l’abilitazione l’hanno ottenuta, vien da chiedersi se non hanno imparato nulla o se non c’era nulla da imparare.
Non conosco nel dettaglio il percorso formativo proposto agli abilitandi dell’una o dell’altra disciplina. Qualche anno fa – non secoli, né decenni… – una collega alle prese con l’abilitazione per la scuola media mi aveva mostrato un compito sul tema della valutazione, chiedendomene un parere. Vi avevo ritrovato parecchie schede copiate pari pari da un corso che avevo svolto oltre vent’anni prima all’università di Ginevra: concetti importanti, che erano tuttavia un po’ isolati; quando si valuta, ad esempio, non si può scordare la fondamentale attività che precede: insegnare. L’altro giorno una giovane collega, recentemente abilitata dall’ASP, mi ha raccontato di un corso di educazione sessuale che faceva parte della trafila abilitante: è noto, per opinione comune e diffusa, che non si può ignorare la differenza statistica della curva del piacere maschile e femminile per insegnare matematica al liceo. Un po’ tutti, poi, se la prendono col socio-costruttivismo, un approccio che si è accasato all’ASP e che tende a far strame di ogni altro indirizzo pedagogico.
Intendiamoci: non è il caso di sparare a casaccio sull’ASP, occupazione che da qualche anno sembra assai di moda. Il problema, per la verità, non è solo ticinese o svizzero. La terziarizzazione della formazione degli insegnanti si sta configurando come una perniciosa spinta tecnocratica. Così le scienze dell’educazione sono sempre più soggiogate dalle più disparate tassonomie, alla spasmodica ricerca di uno statuto scientifico che è comunque lontano mille miglia dalle riflessioni, dai contributi e dalle esperienze offerte dalla storia delle idee pedagogiche. Col passare del tempo e col nostro essere vieppiù cittadini del mondo globalizzato, per contro, la conoscenza di alcuni principi fondamentali della scuola assume di giorno in giorno maggior peso: ad esempio, cosa significa e cosa implica operare in una scuola pubblica e obbligatoria? In definitiva, Enrico Pestalozzi, Maria Montessori, John Dewey e molti altri hanno ancora alcuni messaggi forti da trasmettere ai futuri insegnanti. Sembrerebbe invece che, al giorno d’oggi, l’ultimo ritrovato delle scienze dell’educazione possa fare a meno di tanti insegnamenti pedagogici che, prima di ogni infatuazione tecnologica, traevano origine dall’etica.
Nel grande emporio della formazione
Sul Corriere del 26 marzo, Saverio Snider ha chiosato con sarcasmo la notizia, rimbalzata sin qui dall’oberland zurighese, secondo cui “…un liceo di Wetzikon ha deciso di lanciare un «progetto pilota» sul fronte pedagogico: lezioni senza docente per promuovere l’apprendimento individuale. Gli allievi riceveranno una lista di compiti e obiettivi didattici e dovranno sbrogliarsela da soli; gli insegnanti saranno presenti per assisterli solo per un’ora settimanale (invece delle odierne tre o quattro), salvo ovviamente essere raggiungibili tramite posta elettronica”. Ironia a parte, la pensata non è così peregrina come sembra, in un’epoca in cui la scuola è sottoposta a pressioni di varia estrazione, nell’intento sempre più appariscente di trasformare un’istituzione al servizio del Paese in un immenso emporio dell’istruzione, dove molti vorrebbero che ognuno potesse servirsi secondo i suoi bisogni più istintivi e immediati.
Stando a quanto scrive Snider, la trovata non ha alcun obiettivo didattico, ma risponde solo a una ragione economica, quella di risparmiare sui salari. Ma la Municipalità di Wetzikon potrebbe inconsapevolmente aver scoperto l’uovo di Colombo del liberismo applicato all’istituzione scolastica: in fondo se non fosse per gli insegnanti e l’apparato burocratico dei diversi dipartimenti dell’istruzione, non vi sarebbero altri impedimenti sulla strada dei programmi à la carte, dell’energico aumento del numero di allievi per classe e dell’applicazione di una vera selezione, per separare i meritevoli dagli incapaci. Nell’800 la borghesia laica e liberale si era battuta aspramente contro il clero, per sottrarle il potere dell’educazione dai fanciulli e dei giovani, che la chiesa esercitava pro domo sua. Anche perché – come ricordava Diego Erba in un recente articolo su La Regione – “la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società”. Quella lotta ha portato all’edificazione della scuola repubblicana, che è scuola di tutti, grazie all’impegno di persone che credevano nella democrazia. Ancora tre anni fa, in occasione della votazione sulla proposta di sussidio alle scuole private, c’era stata una corsa all’evocazione dello spirito fransciniano, per sottolineare i pericoli di una scuola consegnata nelle mani degli interessi privati.
Come sembrano lontani, quei tempi! Non passa giorno senza che i neo-liberisti nostrani si scaglino contro la scuola e i suoi insegnanti, descritti come una casta di sfaccendati pieni di privilegi, che servono a poco e che, soprattutto, costano un patrimonio. Insomma: i poteri forti sono stufi di questa scuola che, nelle intenzioni del Parlamento, dovrebbe promuovere “…lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”: quante frottole… In tal senso la proposta di Wetzikon di togliere dai piedi un bel po’ di insegnanti è una trovata formidabile, perché fa risparmiare un sacco di soldi e, soprattutto, non implica la dispendiosa perdita di tempo per accrescere le competenze di chi potrà benissimo guadagnarsi da vivere senza troppe nozioni. Anzi, a questo punto converrebbe estendere la riforma anche a tutta la scuola dell’obbligo: pochi insegnanti affiancati da un numero adeguato di sorveglianti – che costano poco e si potrebbero benissimo reclutare tra i genitori – favorirebbero in tempi brevi la metamorfosi della scuola che conosciamo in un grande supermercato della formazione, dotato beninteso di regolare mensa e organizzato attorno a proposte formative variegate: inglese, matematica, biologia e letteratura; ma anche bricolage, pallacanestro, origami e cucina. A libera scelta, con buona pace della democrazia e dell’integrazione sociale e culturale.
Insegnanti, vocazione e formazione
La professione di insegnante è diventata molto più difficile rispetto al passato. Diventare maestro, diciamo di scuola comunale (dell’infanzia o elementare nulla cambia), lo è finanche di più. Se oggi avessi quindici anni e volessi imboccare la strada che mi porterebbe a uno dei più antichi mestieri del mondo, dovrei convenire con me stesso di non esservi tagliato: intanto è probabile che non conquisterei nemmeno quella fatidica media del 4.65 che mi darebbe accesso al liceo senza esami di ammissione, perché la matematica e le lingue non sono mai state le mie materie preferite, e nemmeno quelle in cui eccellevo (o arrancavo meno: dipende dai punti di vista). Pensandomi in retrospettiva, debbo ammettere che ero un ragazzo timido e un po’ imbranato – come immagino ve ne siano tanti anche oggi – e non afferravo molto il senso della maggior parte delle cose che mi rifilava il ginnasio. Però leggevo molto, avevo un’intensa vita mentale ed ero allenatore di un gruppo di bambini in ambito sportivo: così mi era sorto il desiderio di divenire maestro.
Oggi avrei lasciato correre. Il liceo mi avrebbe spiaccicato come un insetto immondo. Ne sarei uscito con le ossa frantumate a colpi di matematica e chimica e fisica, senza dimenticare quel gran paniere con le lingue moderne. Insomma, mi si sarebbe parato davanti un quadriennio di tormenti e di umiliazioni, e non so se la mia psiche, in quell’età di insicurezze e di trasformazioni, avrebbe potuto reggere l’urto. Credo che avrei scelto una strada meno rude: che so? l’educatore o qualcosa di simile, con tanto di maturità professionale nel settore socio-sanitario, conscio del fatto che il Gran Consiglio – con una pensata dell’ultimo momento – avrebbe introdotto la possibilità, per i portatori di maturità come la mia, di accedere all’Alta Scuola Pedagogica senza dover transitare dal liceo. Il resto è cronaca recente: mi sarei iscritto all’ASP sub condicione e con buona probabilità, dopo un anno, mi sarei ritrovato con un pugno di mosche.
Ora è difficile sostenere che si debba spianare la strada a chi vuol diventare insegnante, facilitandone l’accesso (e magari anche l’uscita). In fondo, da un punto di vista dottrinale, è giusto che il maestro abbia dalla sua una solida cultura di base; perciò il liceo sembra attualmente la scuola più indicata a livello propedeutico. Il problema, però, è che il liceo odierno si configura come una scuola fortemente caratterizzata dalle materie scientifiche e dalle lingue straniere, che rappresentano degli scogli fors’anche insuperabili da parte di chi – per educazione e per sua forma mentis – si ritrova con inclinazioni piuttosto umanistiche. Il difetto, quindi, non sta neanche tanto nell’ASP e nelle leggi che ne regolano il funzionamento, quanto nella difficoltà, tutta odierna, di capire qual è il profilo più adatto per diventare insegnante. Pensando alla recente avventura che hanno corso quelle decine di studenti entrati all’ASP con un sacco di sogni, ma senza la maturità giusta, corre voce che un qualcuno di loro sia stato escluso perché bocciato agli esami di recupero riservati ai portatori della maturità professionale, pur avendo passato con successo i tirocini pratici. Viceversa qualche studente regolare – con tanto di maturità liceale – è incespicato nel contatto con le classi e con gli allievi.
Non è un quadro molto confortante, quello che ne scaturisce, poiché si rischia di escludere dalla professione giovani motivati e capaci e, nel contempo, di diplomare persone più a loro agio con le circonvoluzioni del pensiero teorico che con la conduzione a lungo termine di una classe di scuola dell’infanzia o elementare. Se – come afferma qualcuno – oggi più che mai è necessario risvegliare un nuovo umanesimo, bisognerà cominciare proprio dalla formazione degli insegnanti, con un ragionamento che vada alla radice delle attitudini, delle competenze e delle conoscenze che devono far parte del bagaglio di un maestro, invece che dedicarsi surrettiziamente all’invenzione di scorciatoie per entrare all’ASP: che è e deve restare una scuola professionale.
Magistrale: si cambierà tutto…
Fra qualche tempo il Gran Consiglio ticinese sarà chiamato ad esprimersi sul progetto di Alta Scuola Pedagogica (ASP, appunto). Di che si tratta? In buona sostanza di una nuova scuola, che sostituirà i differenti istituti che attualmente si occupano della formazione degli insegnanti, vale a dire la Magistrale e l’istituto per l’abilitazione e l’aggiornamento.
Se ne parla ormai da molto tempo, sebbene la scadenza sia già nota: l’ASP debutterà col settembre del 2002, e la decisione granconsigliare è vissuta come una sorta di pignolo formalismo; tant’è vero che, sino ad oggi, gli unici elementi di contenzioso che hanno guadagnato non dico le prime pagine, ma almeno qualche articolo in cronaca, sono legati alla geografia. Cioè a dire: vogliamo lasciare l’ASP a Locarno, al posto della vecchia e gloriosa Scuola magistrale, oppure traslochiamo tutto a Lugano, inglobandola nell’USI?
Oddio, al di là degli aspetti di campanile, la disputa sul tipo di scuola che deve formare gli insegnanti – università o no ? – ha tenuto banco per diversi anni, e non solo da noi. Fatto sta che la maggior parte delle regioni svizzere ha optato per le alte scuole pedagogiche – ad eccezione di Ginevra, dove già da qualche anno i maestri dell’asilo e delle elementari si formano all’università. Di altre cose più importanti, invece, non si discute, se non tra i presunti addetti ai lavori (che sarebbero poi quelli che si guadagnano il pane nella scuola Magistrale di oggi), come se la formazione degli insegnanti di domani non fosse affare di tutti i cittadini. Tutto sommato – sembra di capire – meglio dar credito agli esperti, per evitare che il tutto si tramuti nella solita chiacchiera da bar.
C’è però un punto che è incomprensibile: com’è possibile cambiare da cima a fondo la Magistrale – chiamiamola così, per semplicità, che è anche più bello che dire ASP – senza minimamente ridisegnare la scuola? Poco più di dieci anni fa gli studi magistrali erano già stati riformati, passando da quattro anni di formazione a cui si accedeva dopo il ginnasio, a due anni di formazione dopo il liceo. Forse perché il modello proposto ha mostrato assai in fretta la corda, ora si vuole aggiungere un terzo anno, che speriamo non ricalchi i primi due.
Insomma: da più parti si sente dire che la scuola – almeno quella dell’obbligo – non è più adeguata alle odierne esigenze della società, che il mondo è complesso, che con le semplificazioni scolastiche non si impara ad essere cittadini consapevoli. Ma nell’ambito di questa riforma non si discute di queste astruserie, e probabilmente non se ne discuterà neanche domani, se è vero, com’è certamente vero, che oggi la Magistrale è uno dei bastioni cruciali che garantiscono l’immobilità del sistema scolastico, sistema che tenta atavicamente di adattarsi ai cambiamenti, apponendo cerotti alla bell’e meglio: ieri la matematica moderna (a proposito: che fine ha fatto?), l’educazione sessuale e quella stradale; oggi l’inglese e l’informatica (e i ragazzi ingestibili): come se crescere fosse solo una questione di nozioni, come se la scuola dello Stato non avesse propositi ben più ambiziosi. Per dire che non conta molto la durata della formazione degli insegnanti, mentre sarebbe meglio prefigurarne il ruolo e i compiti, attraverso un ampio e franco dibattito.
Era dai tempi di “Summerhill” (Alexander Neill, del 1971 l’edizione italiana), che un libro sui grandi indirizzi dell’educazione non diventava un must (nell’ambiente c’è già chi divide il mondo in chi l’ha letto e chi no): c’è riuscito Edgar Morin proprio nel 2001, con “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”; ma quel dibattito, da noi, viene sistematicamente eluso. E allora v’è da augurarsi che il Gran Consiglio non la tiri per le lunghe e ci risparmi tante elucubrazioni geo-universitarie: tanto si cambierà tutto per non cambiare un bel niente. Gasp!