L’articolo sottostante, col titolo (redazionale) Si tratta di un progetto liberal e non è per nulla… socialista, è apparso sul domenicale ilCaffè dell’8 aprile nel contesto di un confronto a due voci sul progetto La scuola che verrà e sulla raccolta di firme contro il credito concesso dal Parlamento per l’inizio della fase sperimentale a partire dal prossimo anno scolastico.
Va da sé: la raccolta di firme, che, se riuscisse, sottoporrebbe a referendum la risoluzione del Gran consiglio, è solo formalmente contro la concessione del credito, perché in realtà intende affossare l’intero progetto – ciò che i promotori del referendum non hanno nascosto in sede parlamentare.
Manuele Bertoli avrà anche lui qualche difetto, come tutti; ma non lo si può accusare di essere tronfio e megalomane. È un uomo che ha molto a cuore la scuola pubblica e obbligatoria: la conosce bene, perfino dal profilo istituzionale e pedagogico. Il progetto La scuola che verrà intende concretizzare le finalità che il Parlamento aveva dichiarato nel 1990: La scuola promuove lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà. È un progetto umanistico, ispirato ai più alti valori repubblicani. Chi dice che si tratta di un progetto socialista – e calca su quell’aggettivo come se fosse un insulto – è in malafede. La scuola che verrà è un progetto liberal, nel senso anglosassone del termine. Se davvero si vuol credere che questa riforma è socialista, allora si deve convenire che Pestalozzi, illuminista ed erede di Rousseau, era un brigatista rossissimo.
Altrettanto scorretta è l’equazione secondo cui il fatto di voler portare ogni allievo al limite estremo delle sue possibilità equivale a un inevitabile abbassamento del livello medio della scuola. Il sociologo Walo Hutmacher aveva pubblicato nel 2012 un’interessante riflessione. Scriveva che «le pari opportunità fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva. Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare: è esattamente ciò che comincia a essere intollerabile, tanto dal punto di vista dell’efficacia, quanto da quello dell’equità».
È l’obiettivo nobile del progetto di Bertoli.
Al posto del nostro ministro dell’educazione io non mi sarei fidato troppo di certi compromessi coi partiti. Ad esempio non avrei ceduto sull’abolizione della soglia minima per l’accesso al liceo. Ma, per la fortuna del Paese, non sono un governante e posso quindi fare a meno di quel forse utile pragmatismo.
L’articolo di Walo Hutmacher, da cui ho tratto la citazione in una mia libera traduzione, è apparso sul numero speciale della rivista Éducateur del 24 febbraio 2012, pubblicato in occasione del centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, che nel 1975 sarebbe diventato la Facoltà di psicologia e di scienze dell’educazione dell’Università di Ginevra (Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques).
Qui è possibile scaricare l’articolo integrale e originale, intitolato Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé (p. 64-66).
La raccolta di firme è relativa alla risoluzione del parlamento del 12 marzo 2018. L’oggetto in questione è il Messaggio 7339 del 05.07.2017 concernente la «Concessione di un credito quadro di fr. 5’310’000.- per la sperimentazione del progetto La scuola che verrà». A questo indirizzo sono disponibili i documenti ufficiali.
Nella mia rubrica apparsa sul Corriere del Ticino del 12 marzo scorso avevo proposto una piccola riflessione sulla formazione degli insegnanti (Un paio di idee per inventare gli insegnanti di domani), stimolato in tal senso dal contributo di Michele Mainardi – fino all’agosto scorso direttore del Dipartimento formazione e apprendimento – contenuto nell’ultimo rapporto annuale della SUPSI.
Nel 2000 quello che all’epoca si chiamava ancora Dipartimento dell’Istruzione e della Cultura (DIC) aveva promosso una vasta consultazione in margine al progetto di Alta Scuola Pedagogica (ASP). In particolare si chiedevano delle prese di posizione sui documenti preparatori in vista della presentazione del messaggio del Consiglio di Stato al Parlamento. L’ASP, che avrebbe sostituito la Magistrale post-liceale creata negli anni ’80, sarebbe nata nel 2002, ma avrebbe avuto vita brevissima: in effetti già nel 2009 era stato deciso e realizzato il passaggio dell’istituto per la formazione degli insegnanti dal Dipartimento dell’educazione alla SUPSI.
Anche la Conferenza dei direttori delle scuole comunali, di cui facevo parte (credo che in quegli anni fossi pure membro dell’Ufficio presidenziale), prese parte alla consultazione, e inviò le sue osservazioni e le sue proposte al Dipartimento (il documento integrale può essere scaricato qui), che si chiudeva con un capitolo che mi sembra ancora attuale e interessante (come, d’altronde, tutto il resto).
Quale diploma per i futuri insegnanti?
Dal punto di vista giuridico le scuole comunali sono frazionate in due settori (SI e SE), e la scuola elementare è nuovamente sezionata in classi e cicli. Abbiamo visto che per insegnare occorrono alcune attitudini, conoscenze e capacità che travalicano gli aspetti specifici legati all’età del gruppo dei discenti. Detto questo, si potrebbe immaginare che lo studente possa “specializzarsi” nell’insegnamento in uno dei tre settori, di cui il primo da scegliere durante la formazione di base, e gli altri due come diplomi da conseguire a livello di formazione continua (…).
Analogamente si potrebbe immaginare la possibilità di diplomi che permettano anche all’insegnante della scuola dell’infanzia o elementare di accedere ad altri livelli della professione (sostegno pedagogico, scuola speciale, scuola media; ma anche: certificato post-diploma nelle didattiche disciplinari, o in aspetti particolari della pratica pedagogica: valutazione, pedagogia istituzionale, ecc.), attraverso l’acquisizione di certificati riconosciuti (nell’ambito dell’ASP, di istituti analoghi o a livello strettamente universitario). Spingendo sull’acceleratore di questa logica, si potrebbe immaginare che nell’ambito dell’Alta Scuola Pedagogica sarebbe possibile organizzare dei moduli di formazione non necessariamente legati all’acquisizione diretta di un’abilitazione (SI, I ciclo, II ciclo, SSP, …), ma il cui insieme potrebbe rappresentare il requisito per l’accesso ad altre cariche (direttore, ispettore, orientatore, e via di seguito).
Va da sé che le successive acquisizioni in termini di formazione andranno riconosciute anche sul piano contrattuale, indipendentemente dal settore scolastico in cui si insegna in un dato anno scolastico.
Quel documento, poi riporta altre proposte della Conferenza. Scrivevamo ad esempio: «Sembrerebbe quindi di intuire che, accanto alla riforma della formazione dei docenti, occorra attendersi in tempi brevi una conseguente riforma delle strutture scolastiche e dello statuto giuridico dei docenti. Non nascondiamo che saremmo di fronte ad un ormai vecchio postulato della CDD, che già nel 1993 aveva sottoposto all’Ufficio dell’Insegnamento Primario una riflessione sul cambiamento delle strutture» (il riferimento era a un rapporto del 22 aprile 1993).
Oppure ecco il riferimento a un altro documento della nostra Conferenza, del 1998, denominato «La Valutazione Nella Scuola Elementare – Riflessioni e proposte per un nuovo orientamento nella valutazione degli allievi»:
«(…) la CDD aveva chiesto degli incisivi cambiamenti degli strumenti di valutazione, e ancora in occasione della consultazione sulla riforma amministrativa (UEP-UIP) aveva scritto:
A livello di insegnanti, occorrerà sottoporre a seria ed analitica riflessione sia il concetto di formazione di base, che quello di formazione continua, chiedendosi ad esempio se è ancora concepibile, nel 2000, un maestro formato una volta per tutte (salvo, qua e là, qualche update più o meno omologato), capace di svolgere tutte le mansioni richieste dalla funzione nel giorno del conseguimento della patente: dalla programmazione annuale alla valutazione certificativa, dai contatti con i genitori alla gestione dei conflitti, dall’organizzazione pedagogica alle didattiche disciplinari, dalla psicopedagogia delle diverse materie di insegnamento allo screening dei comportamenti e degli apprendimenti difficoltosi, …
In altre parole, e senza entrare in dettagli peraltro contemplati dal documento in esame, la CDD nutre la speranza che nel 2020 non si debba leggere da qualche parte che “Le grandi riforme scolastiche d’inizio secolo non hanno dato sempre l’esito sperato”».
Mix & Remix – L’interview (30.09.2013) Vignetta tratta da 1er degré – La strips Parade (http://www.1erdegre.ch/blog/)
L’impressione, anni dopo, è che tutto si muova con indecifrabile (si fa per dire!) lentezza, alla faccia della scuola come cantiere perennemente aperto, delle riforme “epocali” e delle discussioni tanto frequenti da sembrare serie e perenni.
Non giudico le proposte della CDD di quegli anni, anche se, a titolo personale, continuo a sostenerne la bontà. Certamente c’erano delle visioni.
Sono grato al collega Marco Rossi, da poco in pensione e per tanti anni presidente della nostra Conferenza: è grazie a lui se ho potuto recuperare questi documenti, di cui ricordavo gli elementi essenziali.
Nella mia rubrica Fuori all’aula mi ero occupato a due riprese del passaggio dalla magistrale post-liceale all’ASP:
La fase di sperimentazione del progetto «La scuola che verrà», di cui si è parlato per la prima volta nelle ultime settimane di quattro anni fa (La scuola che verrà…), è stato accolto a maggioranza dal Parlamento cantonale lo scorso 12 marzo, dopo un lungo negoziato tra il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport e i diversi partner interessati.
«Gli esami per la scuola che verrà», ha titolato il Corriere del Ticino del 13 marzo: La riforma del DECS ha superato un primo esame. Dopo un dibattito fiume durato oltre 5 ore, la maggioranza del Gran Consiglio ha detto sì – con 51 voti favorevoli, 19 contrari e 5 astensioni – al credito di 6.7 milioni di franchi per avviare la fase pilota a settembre. A sostenere la sperimentazione sono stati i deputati di PLR, PPD e PS mentre un chiaro no è stato espresso da La Destra e dalla maggioranza della Lega. Sollevato dal via libera parlamentare, il direttore del DECS Manuele Bertoli ha precisato come «questa non è una riforma socialista, ma un progetto che ha quale obiettivo quello di migliorare la scuola dell’obbligo riuscendo a seguire meglio gli allievi nella loro individualità».
Il sostegno dei tre partiti storici – PLR (partito liberale radicale), PPD (partito popolare democratico) e PS (partito socialista) – non è stato ottenuto senza costi: il DECS ha dovuto cedere diverse posizioni, tra le quali quella del mantenimento della soglia minima per l’accesso alla scuola media superiore, vale a dire il liceo e la scuola di commercio.
La festa, per ora, è sospesa
I festeggiamenti per il traguardo raggiunto con tanta fatica sono durati poco, perché i partiti che hanno avversato la sperimentazione hanno annunciato il lancio di un referendum. Ha detto il ministro Manuele Bertoli: «Il referendum è senz’altro legittimo, ma in questo caso è arrivato all’ultimo momento, un po’ tra il lusco e il brusco».
Il Corriere de Ticino del 15 marzo ha chiosato la reazione del direttore del DECS: Questa la reazione a caldo del direttore del DECS Manuele Bertoli, all’indomani della decisione dell’UDC di lanciare un referendum contro l’avvio della sperimentazione de «La scuola che verrà». Una presa di posizione, quella democentrista, annunciata a soli sei mesi dall’inizio della fase di sperimentazione. Fase pilota che, nel caso in cui le 7’000 firme fossero raccolte entro il termine dei 45 giorni previsto, slitterebbe ancora di un anno. E la conferma giunge dallo stesso Bertoli: «È un peccato, già abbiamo subito il rinvio l’anno scorso, e questo sarebbe il secondo stop al progetto. Infatti, in caso di riuscita del referendum, sarebbe troppo tardi per poter partire come previsto a settembre».
Sulla genesi del referendum il direttore del DECS si dice in parte perplesso: «Dal punto di vista procedurale i motivi sono democraticamente corretti, ma dal profilo della trasparenza e della deontologia politica mi permetto di esprimere dei dubbi». Bertoli lancia quindi una frecciatina al fronte contrario al progetto: «Il referendum credo poggi su due questioni. Da un lato la volontà espressa anche onestamente dal presidente dell’UDC di profilarsi, utilizzando la scuola come terreno di scontro eminentemente politico, in vista delle elezioni del prossimo anno. Atteggiamento questo che non è illegittimo, ma semmai indelicato perché la scuola è di tutti, oltre che un’istituzione estremamente delicata e sulla quale avrei preferito che una battaglia non si facesse. La seconda questione invece è più un confronto di visioni. La nostra proposta intende ammodernare la scuola ticinese secondo la tradizione, che è da sempre inclusiva e permette di dare ai docenti la possibilità di seguire uno per uno i ragazzi e all’interno di un contesto unico. Invece la proposta che La Destra aveva portato avanti era quella di una scuola selettiva, dove i bravi vincono mentre gli altri non si sa dove vanno a finire».
Ora resta da capire quale sarà la composizione definitiva del fronte referendario. Certo il sostegno di AreaLiberale e UDF, al riguardo i rappresentanti della Lega al momento preferiscono ancora non sbilanciarsi.
Io non avrei sollecitato il voto del Parlamento confidando nell’appoggio dei tre partiti citati (e tenendo conto delle importanti condizioni poste, nel merito e nella procedura sperimentale).
C’è un filo che unisce la scuola che verrà al voto sull’educazione alla cittadinanza
Non posso scordare, per restare ai temi scolastici, che pochi mesi fa il Ticino era stato chiamato alle urne sull’Educazione alla cittadinanza, per avallare una decisione parlamentare della maggioranza dei parlamentari, poi fatta propria dal popolo (v. Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica).
Ricordo, per chi ha la memoria corta e/o a geometria variabile, com’era andato il voto in Gran Consiglio:
presenti 85
favorevoli 70 (La Destra 4, Lega 19, Montagna Viva 1, PLR 16, PPD 17, PS 8, Verdi 5)
contrari 9 (MPS-PC 2, PLR 3, PS 4)
astenuti 4 (PLR)
Esprimendosi sull’Educazione alla cittadinanza ci si esprimeva anche su una visione della scuola. Già in quell’occasione erano emersi i soliti trasformismi, il più appariscente dei quali è stato, a parer mio, quello del Partito socialista, che è il partito del ministro Manuele Bertoli: in quell’occasione aveva sostenuto il voto contrario durante la campagna in vista del voto popolare, benché in parlamento i contrari erano stati solo 4 (su 12 votanti).
Il voto parlamentare su La scuola che verrà è stato, peraltro, ben più sfumato:
Non so se il giovane d’anni e già vecchio presidente dell’UDC cantonale ha frequentato la scuola media, quasi sicuramente sì. Probabilmente era già la scuola che aveva abbassato il livello di istruzione (a volte, scherzando con amici – anche loro già insegnanti – veniamo a dire che se la scuola pubblica, media e liceo, fosse stata più rigorosa e quindi meno generosa, certi giovani e non più giovani… leoni della politica ticinese non sarebbero lì dove sono, con grande guadagno per loro stessi e per chi deve sopportarli, soprattutto per chi deve sopportarli).
A questo punto – benché le 7’000 firme per la riuscita del referendum non siano ancora state raccolte – possiamo chiederci davvero come sarà la scuola che verrà, quella del futuro prossimo, perché chi ha promosso il referendum non si limita a chiedere lo statu quo, e nemmeno un semplice miglioramento della scuola pubblica e obbligatoria di questi anni.
L’idea è invece un’altra, punta alla selezione precoce delle future élite – poi, dall’élite in giù, ci si può immaginare la possibile scala gerarchica. Se ciò succedesse ci allontaneremmo ancor più dal modello virtuoso delle scuole dell’Europa settentrionale (v. Qual è il segreto della scuola finlandese?) e rischieremmo di avvicinarci a taluni sistemi scolastici asiatici, noti per le procedure “scientifiche” di selezione dei quadri, ma anche per gli elevati tassi di suicidio tra i giovani.
Stefano Franscini (1796-1857), che «Nel Ticino si adoperò senza tregua per la promozione della scuola, “elemento principalissimo dell’incivilimento nazionale”, fondando, tra l’altro, la Società degli amici dell’educazione del popolo» (Dizionario storico della Svizzera).
A quel punto qualcuno dovrà pur assumersi le responsabilità del disastro civico e culturale.
Personalmente avrei scelto la prima Scuola che verrà, quella del 2014, senza livelli e senza soglie per l’accesso alla formazione terziaria attraverso la scuola medio-superiore.
L’articolo sottostante è apparso sul Corriere del Ticino di martedì 6 febbraio, nella rubrica L’Opinione, col titolo «Locarno senza la bandiera europea».Vi sono naturalmente dei risvolti educativi, in questa vicenda sconfortante, che è però figlia dei tempi irresponsabili che stiamo vivendo.
A tanti politici locali piace evocare l’ Esprit de Locarno nei momenti topici. In quel 1925 il sindaco di Locarno sedeva tra i grandi dell’Europa del primo dopoguerra, con Austen Chamberlain, Gustav Stresemann, Aristide Briand e altri politici provenienti dal Belgio, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dall’Italia.
La soppressione di un atto simbolico – l’esposizione della bandiera europea per la festa dell’Europa – non è educativamente neutra. Invece mette in risalto l’ipocrita autarchia di maniera di tanti ticinesi e svizzeri, che naturalmente non si spinge fino all’auto-isolamento in materia economica.
Scandalizzano i tempi e la circospezione, nonché l’indifferenza dei più, dopo che la notizia è venuta a galla. A ciò si aggiunga che, con buona probabilità, gli autori di questa meschinità e tanti loro ammiratori avevano sostenuto la «nuova» educazione civica come disciplina a sé stante nella scuola ticinese e si erano spellati le mani per applaudire l’obbligo di insegnare il Salmo svizzero: come diceva quello là, A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.
Locarno senza la bandiera europea
Da quest’anno la Città di Locarno non esporrà più la bandiera europea per la festa dell’Europa. Ne ha dato notizia questo giornale nella sua edizione di lunedì scorso. La decisione è stata presa a maggioranza dal municipio cittadino, che ha modificato l’ordinanza concernente il protocollo. Ha scritto il Corriere: «Ma quali sono i motivi che hanno portato il Municipio a questa decisione? Forse che Locarno si senta meno europea di un tempo? Impossibile ricevere una risposta. Anche perché l’Esecutivo, sebbene la modifica sia stata pubblicata in questi giorni, ne aveva discusso – adottando una specifica risoluzione – due anni fa». Perché tutto questo riserbo e tanto ritardo nell’informazione? Non si sa.
Lo stesso giorno della notizia Jacques Ducry, deputato di area progressista e presidente del Movimento Svizzera-Europa, ha reagito col dovuto sarcasmo su LiberaTV.ch, il portale diretto da Marco Bazzi: «È una decisione triste, molto triste, per una città che ha ospitato la conferenza sulla pace negli anni ’20… Una città che organizza ogni anno il Festival internazionale del Film, ricevendo crediti e personalità da tutta Europa e non solo. Una città turistica, aperta. Sono stupefatto da questa piccineria da parte del Municipio di Locarno. (…) Se non ci fossero l’Europa e gli europei Locarno sarebbe ancora un villaggio di pescivendoli!».
Dal medesimo portale è giunta la dichiarazione del municipale leghista Bruno Buzzini: «Ho portato io questa proposta – afferma – e alcuni colleghi l’hanno condivisa. Da convinto anti-europeista, ero e rimango contrario all’esposizione della bandiera sugli edifici pubblici. I motivi sono diversi: la Svizzera è ancora discriminata, essendo nella black list fiscale dell’UE, per esempio. Ma ci sono anche i mai risolti problemi di mancata reciprocità con l’Italia, con gli accordi che continuano a slittare…». Patapunfete, perché i motivi citati da Buzzini c’entrano come i famosi cavoli a merenda, dal momento che la Festa dell’Europa, di cui si parlava nella vecchia ordinanza sul protocollo, è per la Giornata del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale che promuove la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa: Consiglio al quale la Svizzera ha aderito sin al 1963.
Resta il fatto che per raggiungere la maggioranza, al municipale leghista se ne devono essere aggiunti almeno altri tre. Certo, la collegialità merita grande rispetto. Ma non vorrei essere nei panni del sindaco di Locarno quando, come da consolidata tradizione, interverrà ufficialmente all’apertura della 71ª edizione di Locarno Festival – edizione che, per uno scherzo del destino, aprirà il sipario il giorno della Festa nazionale. Come ha evidenziato Ducry, «Gli argomenti di Buzzini sono dunque completamente strampalati! Un po’ di cultura non guasterebbe per un municipale della città della cultura».
Cos’altro aggiungere al fragoroso silenzio dei politici locarnesi (e della stampa)?
Mai come oggi termini come razza, razzista e razzismo sono diventati così frequenti nei dibattiti e nelle dichiarazioni (non solo) dei politici: dai grandi quotidiani giù giù fino alle moderne osterie – che in questi anni sono diventate i famigerati social, senza scordare l’esemplarità dei commenti sconnessi e fuori controllo che infestano un gran numero di portali e di edizioni online dei grandi media. Ma è difficile trovare qualcuno che acconsenta a definirsi razzista. Nessuno lo è, razzisti sono gli altri.
L’ultimo caso è rappresentato da quel candidato della Lega che ambisce a governare la regione Lombardia. Così titolava HuffingtonPost Italia: «Troppi migranti, razza bianca a rischio». Poi corregge il tiro: «È stato un lapsus». Ma, per difendersi, aveva citato nientepopodimeno che la Costituzione italiana. Ancora l’HuffingtonPost: Attilio Fontana colpisce ancora. Nonostante consideri “inopportune” le sue parole di ieri sulla “razza bianca a rischio” per l’invasione dei migranti, il candidato del centrodestra in Lombardia insiste sul tema. “Dovrebbe anche cambiare la Costituzione perché è la prima a dire che esistono le razze”. Il riferimento è all’articolo 3 della Costituzione italiana: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Le style est l’homme même, avrebbe chiosato Georges-Louis Leclerc de Buffon, il naturalista del XVIII secolo che ha influenzato gli evoluzionisti del secolo successivo. Insomma, uno che di razze se ne intendeva.
Nel ’72 Giorgio Gaber cantava: In Virginia il signor Brown era l’uomo più antirazzista. Un giorno sua figlia sposò un uomo di colore. Lui disse «Bene!», ma non era di buon umore. Il ritornello, tra una situazione e l’altra, fa così: Un’idea, un concetto, un’idea / finché resta un’idea / è soltanto un’astrazione. / Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia rivoluzione. E c’è pure una premessa: È cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro, che è un’altra cosa. [Giorgio Gaber, “Un’idea”, dall’album «Dialogo tra un impegnato e un non so», 1972].
È difficile far cambiare opinione a un adulto che s’è fatto un’idea zootecnica della specie Homo sapiens, quand’è chiaro che non esistono razze umane. Da qualche parte qualcosa non ha funzionato a dovere nell’educazione di tante persone, che son venute su così, con le loro certezze, come quelli che credono che la terra è piatta, che i castelli sono infestati dai fantasmi, che l’astrologia è una scienza e che i regali di Natale li porta Gesù bambino; e prima i nostri, che è una versione aggiornata e allargata del vecchio donne e buoi dei paesi tuoi.
Se, come detto, è quasi impossibile far cambiare certe idee a un adulto, bisognerebbe invece darsi da fare per l’educazione dei cittadini di domani – mi riferisco, per intenderci, ai ragazzini che frequentano la scuola dell’obbligo, ma anche a studenti e apprendisti delle scuole medio-superiori e professionali. Oggi non sono più sufficienti la lettura di «storie esemplari» o i pistolotti moraleggianti che fanno il verso, attualizzandolo, al Cuore deamicisiano. I predicozzi, magari tolti dal fondo dei cassetti quando succede “qualcosa” che va oltre la ragazzata, mettono in pace le coscienze del sistema scolastico, ma servono a poco. Sono strategie che forse potevano funzionare per educare i figli del secondo dopoguerra, che crescevano in una società per molti versi meno caleidoscopica di quelle venute dopo, e che, soprattutto, sentiva da più parti le storie vere, molto vicine nel tempo, del nazismo e del fascismo, di Hitler e di Mussolini, dell’olocausto e delle bombe atomiche sganciate sul Giappone.
Invece è importante che il discorso prenda le mosse da basi scientifiche, ad esempio spiegando che la specie Homo sapiens fa parte della famiglia degli Hominidae, assieme agli oranghi, ai gorilla, agli scimpanzé e agli australopitechi – quest’ultimi ormai estinti da un po’.
Oggi la divulgazione scientifica ha assunto un’enorme importanza formativa e sarebbe utile che entrasse sempre più nella scuola. Gli esempi sono numerosi. Dato che sono partito dal discorso sul razzismo ho scelto di segnalare due lavori che hanno una base scientifica molto complessa, ma che, sul piano della divulgazione, offrono degli spunti che dovrebbero toccare da vicino la nostra sensibilità.
Ellaha, giovane curda. Immagine da YouTube, Let’s Open Our World
C’è un bell’esperimento, riassunto in un emozionante filmato presente in YouTube, cinque minuti avvincenti. È stato chiesto a 67 giovani provenienti da tutto il mondo di fare un test del DNA. Hanno scoperto di avere molto più in comune con altre nazionalità di quanto avrebbero mai pensato. In quei cinque minuti di questa sintesi ci sono momenti divertenti e altri emozionanti.
Ad esempio, seguiamo il dialogo dei due ricercatori con Jay, un giovane inglese.
JAY. Sono fiero di essere inglese, la mia famiglia ha servito nell’esercito, abbiamo difeso questo paese e siamo stati in guerra. Sì, penso che il mio sia il miglior paese del mondo, in tutta onestà. Quindi so di essere inglese. I miei genitori e i miei nonni mi hanno detto che sono inglese, perciò non vedo bene altre opzioni, devo per forza essere inglese.
RICERCATORE. Secondo lei, che cosa la rende inglese?
Il fatto di essere nato in Inghilterra. Il fatto che i miei genitori siano nati in Inghilterra. Il fatto che mia nonna e mio nonno siano nati in Inghilterra. [Mostra una foto dei nonni.] Entrambi sono stati nell’esercito, come dicevo, tutti e due in marina, la Royal Navy. Io in mezzo, con mio fratello maggiore a sinistra e mio fratello minore a destra.
Pensi ad altri paesi e ad altre nazionalità del mondo; ce ne sono alcune con cui pensa di andare d’accordo o che non le piacciono molto?
La Germania, sì, non mi piacciono i tedeschi.
Perché mai?
Eh, probabilmente deriva dai miei genitori e dai mei nonni, probabilmente risale alla guerra.
Che ne direbbe di intraprendere un viaggio basato sul DNA?
Che cosa potreste dirmi che non so già?
Sa come funziona il DNA? Ne riceviamo metà dalla mamma e metà dal papà, il 50% da ciascuno di loro, e loro ricevono il 50% dai loro genitori, e così via indietro nel tempo. E tutti quei frammenti dei nostri antenati fanno di noi la persona che siamo.
Dovrebbe sputare in questo tubo, lo riempia di saliva fino alla lineetta nera. Bene, la sua storia è in quel tubo. Che cosa ci dirà?
Dirà che sono inglese, come vi ho già detto.
Due settimane dopo i due ricercatori incontrano il gruppo di giovani che si è prestato per questo esame. Ogni giovane riceve un grafico con la sua stima etnica: provenienza geografica e percentuale.
Jay, può scendere e raggiungerci? È pronto?
Non proprio, ma ormai sono qui, perciò…
Gli viene consegnata la busta coi suoi risultati.
(Sorride e sospira). Irlanda 55%, Gran Bretagna 30%, 5% tedesco e 5% turco… Ci avete infilato anche la Turchia solo per farmi arrabbiare? Germania… Oddio… Germania. Vi avevo detto che non avrei voluto essere tedesco o turco e ci sono entrambi, quindi… È un po’ uno shock scoprire da quanti paesi provengo.
Non è solo Jay dall’Inghilterra, vero?
Sì, sono Jay da tutti i paesi, a quanto pare.
Immagine da YouTube, Let’s Open Our World
Allora, le piacerebbe visitare tutti questi posti?
Per restare al tema delle razze e del razzismo, segnalo, tra i tanti, la ricerca che sta conducendo la prof. Anna-Sapfo Malaspinas, attualmente docente all’Università di Losanna. Specialista in biologia computazionale ed evolutiva, è interessata alla genetica delle popolazioni, in particolare partendo dall’analisi del DNA di popolazioni scomparse.
Tra l’altro la rivista rimanda a un progetto didattico concreto, scaturito dai lavori della prof. Malaspinas, una pièce teatrale per grandi e piccoli – Génome Odyssée – Un viaggio teatrale al cuore della scienza e delle tradizioni aborigene – che è stato presentato al museo etnografico di Ginevra nell’autunno scorso e che resterà al Musée de l’homme di Parigi fino al 27 gennaio prossimo.
Sono solo due esempi tra i tanti. Oggi la divulgazione scientifica è praticata da specialisti di grande bravura e sa porgere temi complessi con grande fascino. Attraverso il ruolo insostituibile dei maestri, è importante trasmettere queste passioni per superare ogni forma di pensiero magico: perché la conoscenza è una cosa seria e dev’essere possibile, nella scuola, occuparsi di problemi complessi per il solo piacere di conoscere e di accrescere il proprio bagaglio culturale.
Il tempo delle opinioni importanti, quelle che guidano il cittadino quando deve prendere delle decisioni o esprimere dei pareri, verrà più in là. Ma sarebbe conveniente imparare sin dall’età più tenera che le verità scientifiche non sono convinzioni personali, magari dei semplici pregiudizi, o peggio il risultato di una votazione. La scienza non è una mera questione di maggioranze e minoranze – ne sanno qualcosa quegli scienziati, che un tempo erano pure filosofi, incappati nelle ire dei poteri dell’epoca, perché le loro scoperte mettevano in dubbio le credenze dei contemporanei. Insomma, la terra non solo non è piatta, ma addirittura gira attorno al sole, e non il contrario.
Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola