Archivi categoria: Attualità

Saluti dal 2020, auguri per il 2021

È stato l’anno di Gianni Rodari – era nato cento anni fa, aveva vinto il premio «Andersen» nel 1970 ed era morto nel 1980. Ma il 2020 lo ricorderemo per la pandemia.

L’anno nuovo (Gianni Rodari, 1960).

Indovinami, indovino,
tu che leggi nel destino:
l’anno nuovo come sarà?
Bello, brutto o metà e metà?
Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un carnevale e un ferragosto,
e il giorno dopo il lunedì
sarà sempre un martedì.

Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno.

L’augurio finale ci sta tutto, oggi come sessant’anni fa; anche perché in questo indimenticabile 2020, SARS-CoV-2 non ha fatto proprio tutto da solo, molti uomini ci hanno messo del loro per farlo così, e non hanno ancora smesso, tra mezze aperture e mezze chiusure, negazionisti, integralisti e attesa del miracoloso vaccino, che non ha nulla di miracoloso, né di istantaneo.

***

È un augurio, quello di Rodari, che assomiglia alle parole che lo scrittore Andrea Fazioli ha lasciato sull’ultimo numero di EXTRA Sette, il settimanale allegato al Corriere del Ticino ogni venerdì.

Il mio proposito per il 2021 è impegnativo: ho deciso di non formulare propositi per l’anno nuovo. Proverò a essere attento alle persone, alle cose che mi circondano, e spero di riuscire a improvvisare sugli accordi che il 2021 mi suonerà. Dal momento che non so quali accordi saranno, non voglio decidere in anticipo la melodia. Mi lascerò sorprendere. In fondo, che cosa sarebbe la vita senza sorprese?

Saggia proposta, sarà come gli uomini lo faranno, nelle condizioni in cui si troveranno a decidere cosa fare.

***

Le prime restrizioni, nel cantone Ticino, erano cominciate il 9 marzo. Da lì in poi abbiamo visto e sentito di tutto. Indimenticabile sarà l’invito agli anziani – cioè a chi superava i 65 anni – ad andarsene in letargo per un po’ (e per il loro bene, ovvio) e a stare alla larga dai negozi. Da allora si è sentito di tutto.

Ancora recentemente si è consigliato agli anziani di andare per negozi nelle prime ore dell’apertura mattutina – e diversi supermercati hanno anticipato i loro orari.

Abbiamo così scoperto che gli anziani, nell’immaginario sempliciotto di chi ci governa, sono persone che vanno a letto presto, dormono poco e non hanno niente da fare per passare le giornate. Quindi vadano a comperare il pane quand’è ancora caldo e croccante (anche se oggi il pane è caldo e croccante anche nel tardo pomeriggio).

***

Il 16 marzo hanno chiuso le scuole, con il supporto della «scuola a distanza».

L’11 maggio le hanno riaperte in presenza: è stato il giorno più bello dell’anno. Sul secondo gradino del podio metterei il 31 agosto, quando l’anno scolastico 2020-2021 è stato aperto normalmente.

***

Meno bene sta andando per la cultura e per l’arte.

Sul medesimo numero di EXTRA Sette appena citato, il direttore d’orchestra Diego Fasolis ha chiosato: A inizio 2020 avevo un’agenda strepitosa con tante date nei maggiori teatri d’Europa. Un microscopico «coronavirus» ha fermato e chiuso il Teatro alla Scala il 23 febbraio 2020 e poi tutto il resto. Gli artisti non garantiti sono ridotti alla fame e al silenzio. Centri commerciali affollati e Teatri chiusi. Intanto le persone muoiono, da sole, senza respiro e senza il calore dei parenti. Si capisce che l’Arte, che da sempre estrae dagli esseri umani il meglio di sé, che li consola e li affratella, non rappresenta più un valore. Artisti inutili in una società disorientata e dominata dal Dio denaro. I politici, che da sempre in Svizzera agiscono in acque chete su barche per lo più attraccate al porto, si trovano ora in acque aperte e burrascose con il brevetto da riva. L’Artista, da sempre in balia dei potenti, ha sviluppato la capacità di sopravvivere e ha un’alta missione. Ci saranno dunque voci e strumenti anche nel 2021! Buon Anno.

Applaudo.

***

La lettura mi ha tenuto compagnia in questi mesi. Ho letto più del solito, anche perché sono ormai mesi che non esco più da Locarno. L’ultima volta è stato a Berlino nell’autunno del 2019.

Anche grazie al mio bravo libraio, ho potuto continuare a rifornirmi, malgrado il lockdown primaverile. Tra i tanti che mi sono capitati tra le mani, mi piace citarne una quindicina, che mi hanno offerto viaggi bellissimi; li cito nell’ordine in cui li ho letti a partire dall’8 marzo: Mara (Ritanna Armeni), L’angelo di Monaco (Fabiano Massimi), La misura del tempo (Gianrico Carofiglio), L’architettrice (Melania G. Mazzucco), Prima di noi (Giorgio Fontana), L’assassinio del Commendatore (Murakami Haruki), Noi (Paolo Di Stefano), A proposito di niente (Woody Allen), Lo specchio delle nostre miserie (Pierre Lemaitre), L’enigma della camera 622 (Joël Dicker), L’estate di Piera (Giampaolo Simi), Terra alta (Javier Cercas), M – L’uomo della provvidenza (Antonio Scurati), Nella notte (Concita De Gregorio), Una vita come tante (Hanya Yanagihara), ancora in lettura.

***

A proposito di arte. Nel dicembre del 2019 avrebbe dovuto esserci la 55ª edizione dei Concerti per le scuole, manifestazione che avevo organizzato dal 1998. Nelle mie intenzioni doveva essere la “mia” ultima edizione, ma fui costretto ad annullarla, per diverse e importanti ragioni. Avevo già trovato un successore (meglio: una succeditrice giovane, entusiasta e bravissima). Va da sé: la sua prima edizione, che avrebbe dovuto tenersi due o tre settimane fa, non è neanche stata progettata: tutto chiuso già da marzo, senza prospettive ancora a inizio estate.

Analogamente è saltato anche l’appuntamento con «Piazzaparola», manifestazione letteraria che si rivolgeva agli allievi del II ciclo della scuola elementare. Aveva esordito al castello visconteo di Locarno nel settembre del 2013 con Giovanni Boccaccio, per poi proseguire, anno dopo anno, con Leonardo da Vinci e Ovidio; poi Don Chisciotte, Don Giovanni, Anne Frank e Frankenstein. Quest’ultimo avrebbe dovuto andare in scena anche a Lugano, in aprile… Niente da fare, così come il progetto per il settembre scorso.


Quali desideri per il nuovo anno?

Per rifarsi a Rodari: sarà come gli uomini e le donne lo faranno, o lo devasteranno; sapendo che non dipenderà solo dai singoli (ma anche da loro).

Buon anno (con Diego Fasolis) e lasciamoci sorprendere (con Andrea Fazioli).

Prima o poi anche le truppe del generale Covid avranno la loro Little Bighorn: di più, per ora, scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto, anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno.

Nulla di nuovo sotto il sole

Mi piace segnalare l’opinione di Natalia Ferrara, deputata del PLR in Gran Consiglio, in margine alla campagna dei giovani UDC ticinesi denominata «scuole libere», per denunciare la «visione socialista del mondo e delle cose, mettendo così in pericolo il concetto stesso di democrazia» che sarebbe in atto nelle scuole ticinesi. Per propagandare la loro azione i promotori citano niente meno che Stefano Franscini (1796-1867), principale artefice del moderno sistema educativo del nostro cantone.

Il testo completo, pubblicato a pag. 16 del Corriere del Ticino del 29 ottobre 2020, si può leggere qui (Giù le mani da Stefano Franscini).

Condivido fino all’ultima virgola il parere della parlamentare liberale radicale, che così conclude il suo articolo: La società, attraverso la politica, finanzia la scuola ma non l’aiuta a educare. Non in questo caso almeno. Un’altra occasione sprecata, poiché tutto può servire alla scuola salvo una lotta ideologica da secolo scorso, con l’obiettivo non di innovare, bensì di suscitare reazioni scomposte delle varie tifoserie. Tant’è vero che anche i comunisti, nella loro reazione a questa iniziativa UDC, spiace dirlo, non hanno portato idee, bensì, a loro volta, dogmatismi.

A proposito di povertà di idee, ricordo che i giovani UDC ticinesi si sono limitati a copiare di sana pianta un’analoga campagna che era stata lanciata giusto sei anni fa – pensa te il caso – dai loro colleghi nazionali: «Il tuo professore ti vuole influenzare? I giovani UDC corrono in tuo aiuto. Freie Schulen. Stopp der politischen Indoktrination!» Ne avevo scritto Corriere del Ticino, il 18 ottobre 2014, e sono contento di riproporlo oggi: I giovani UDC e gli studenti indottrinati dai maestri.

Serenità, tempo e diritto (bis)

Benché lo stato dell’arte delle Cose di scuola offra spunti critici a ritmi vieppiù serrati, nel 2019 sono intervenuto raramente in queste pagine. La verifica è facile: tra il 22 gennaio il 17 ottobre mi sono fatto vivo undici volte.

Qualche amico me l’ha pure fatto notare. D’altra parte i miei appunti sono stipati di temi che avrei voluto trattare, per proporre qualche riflessione. Troppo spesso, però, gli argomenti possibili si sono sovrapposti l’un l’altro.

Così, in mezzo a tanta confusione, mi sono fermato.

Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…

[La voce della luna, di Federico Fellini (1990), Sceneggiatura di Federico Fellini, Ermanno Cavazzoni, Tullio Pinelli].

Il bello è che, giusto un anno fa, avevo dedicato i miei auguri di Capodanno alle parole perdute della scuola: serenità, tempo e diritto. «Anche nella scuola – avevo concluso – ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti».

Era stato il mio augurio per il 2019.

Lo rinnovo sulla soglia del nuovo decennio, con invariata fiducia: anche perché nel 2020 c’è il doppio anniversario di quel grande intellettuale che fu Gianni Rodari.

Gianni Rodari (1920-1980). Conferenza nel Palazzo dei Borghesi di Locarno, giovedì 3 marzo 1977.

Speranza nella cultura

Lo scrittore Andrea Fazioli ha inaugurato nel 2015 un suo blog, in cui parla e scrive dei suoi libri, dei suoi racconti e dei suoi «esperimenti letterari».

Qualche giorno fa ha pubblicato un articolo inconsueto, Speranza nell’Islam, che inizia così:

Stavo viaggiando in treno. Un uomo sulla trentina si è rivolto a me, dicendomi di avere letto un paio di miei romanzi. In particolare gli è piaciuto quello più recente (Gli Svizzeri muoiono felici); in più segue la serie “Il commissario e la badante”, i cui racconti escono ogni settimana sulla rivista svizzera “Cooperazione”. Dopo i complimenti, l’uomo ha detto che doveva farmi un rimprovero. «Secondo me lei parla troppo degli islamici.»

Il quarto commento all’articolo ha un inizio lapidario: «Questo post è una vergogna!»

È lì che ho sentito il bisogno di aggiungere anche una mia breve riflessione, forse per una certa affinità di pensiero con Andrea.

Eccola.


Caro Andrea, vedo che la tua riflessione sull’Islam è andata di traverso a qualche stomaco delicato. Hai preso dello svergognato, del socialista, dell’impegnato (con le virgolette a mo’ di superlativo; o in mancanza di un lessico più specifico), del fazioso («Troppo facile citare solo gli autori che piacciono a lei»).

Ti hanno risparmiato di essere un professorone, si vede che la parola non gli è venuta.

Per mestiere e da cittadino ho imparato che cattivi, cretini, fascisti e via elencando non hanno nazionalità, religione, status sociale. Ci sono forse delle responsabilità del e nel sistema formativo – e di quelli della mia generazione, senza naturalmente fare di ogni erba un fascio.

È pure cambiato tutto il sistema di informazione. Ha scritto lo scrittore Bruno Morchio: «Nell’era di Internet è diventato impossibile censurare una notizia. Tutto quello che si può fare è evitare che essa venga recepita, facendola scomparire in una pletora di informazioni. Tecnicamente, si chiama azzerare la differenza accrescendo la ridondanza. Sopprimere e reprimere è costoso e poco remunerativo. Molto meglio allungare e diluire, come il caffè americano rispetto al [nostro] espresso.»

Mentre ti leggevo mi è venuta in mente la storia di un giovane che ho conosciuto pochi anni fa, quando aveva vent’anni. Era nato nel nostro paese, da una mamma ticinese e da un papà immigrato. Un uomo buono, laborioso, intelligente. Si chiamava Nassim e aveva abbracciato la religione islamica. Nel luglio del 2015, a Londra, ha sposato Hafsa, una giovane insegnante in un liceo della city, diplomata a Oxford: l’aveva conosciuta nella capitale britannica, dove lavorava in quegli anni.

Qualche giorno dopo l’ultimo Natale era venuto a casa nostra con Hafsa, per salutarci e per gli auguri. Un cancro terribile lo faceva visibilmente soffrire. Così, da qualche tempo, era tornato in Ticino con la sua sposa, per curarsi nei nostri ospedali e, immagino, per essere vicino ai suoi genitori.

Era stata una chiacchierata emozionante e piena di ottimismo, soprattutto da parte sua. Ci eravamo salutati con un arrivederci a presto, il tempo di mettere al tappeto il male.

Pochi giorni dopo, il 20 gennaio, se n’è andato, senza mai aver avuto il tempo o il temperamento per far del male a (o di pensare male di) qualcuno. Da allora il suo corpo giace nel cimitero islamico di Lugano.

Spegnere i telefonini in aula?

Sull’edizione uscita domenica 26 maggio, il settimanale ilCaffè ha dedicato il suo confronto al tema dei telefonini in mano ad allievi della e nella scuola dell’obbligo. Col titolo Spegnere i telefonini in aula? I diritti e doveri non bastano, Clemente Mazzetta ha così introdotto il confronto.

Telefonini a scuola, sì o no? Una questione che da scolastica, educativa, comportamentale, si è fatta politica. Ed è uscita dall’ambito stretto delle discussioni familiari per sbarcare in parlamento, che dovrà decidere sulla mozione presentata da tre deputati che hanno posto la questione in termini ultimativi: proibire lo smartphone nelle scuole dell’obbligo, così come si è fatto in Francia e nel Canton Vaud. Quella del divieto totale è un’ opzione che il governo reputa eccessiva, perché “proibirne [l’uso] in modo assoluto significherebbe venire meno a un indispensabile compito educativo”.

Il Dipartimento educazione, cultura e sport ha comunque fornito alcune indicazioni: ovvero che i telefonini possono essere portati a scuola, ma devono restare spenti o in “modalità aereo”. Ovvero non connessi. Va da sé che non devono essere utilizzati durante le lezioni, che possono essere ritirati se usati in modo inappropriato, e il loro uso nel corso delle uscite didattiche deve essere stabilito dalla direzione scolastica.

Il tema dei telefonini, e delle valutazioni che seguiranno, evidenziano però ancora una volta come sulla scuola vengono scaricati nuovi compiti “educativi” a base di norme e regolamenti. Si confrontano sul tema un insegnante di oggi, Daniele Dell’Agnola, e un direttore didattico di ieri, Adolfo Tomasini.

Avevo già parlato di questa iniziativa giusto due anni fa (Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare), quando tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – avevano presentato la loro interrogazione.

Ora è giunto al Parlamento il parere del Consiglio di Stato. Ecco quindi le osservazioni che abbiamo messo a confronto, ognuno non sapendo chi fosse l’altro sottoposto a confronto.

L’analisi/1 – Ma non c’è bisogno di un divieto di Stato, basta quello scolastico

di Adolfo Tomasini

Capisco che il tema delle nuove tecnologie, e in particolare l’uso degli smartphone, interroghi e coinvolga anche il mondo della scuola, che fra i suoi compiti non ha solo quello di insegnare a leggere, scrivere e far di conto, ma, prima di tutto, quello di educare. Da qui a coinvolgere il Consiglio di Stato per stilare un regolamento che proibisca agli studenti l’uso del telefonino, o di altre diavolerie elettroniche, ce ne passa.

È la questione politica in sé che mi pare strana. Essere a scuola significa costruire delle competenze disciplinari assieme ad altre persone presenti in queste piccole comunità. Non si tratta dunque di decidere se vietare o consentire lo smartphone. A scuola si va per imparare e crescere culturalmente e socialmente. Ciò che ostacola il lavoro del maestro o dell’alunno va rimosso, senza se e senza ma. Il telefonino, per restare a questo esempio, deve restare muto durante il lavoro perché intralcia l’attività, non perché è proibito.

Tocca all’insegnante richiamare all’attenzione l’alunno che si distrae, che non sta attento, che non segue. È implicito nella sua funzione: non c’è bisogno del Consiglio di Stato. Come in passato non si potevano leggere giornaletti di nascosto, non si doveva usare il bigino, non si doveva disturbare, così oggi non si deve chattare, sbirciare le risposte sul telefonino, lasciarlo squillare. Basta l’autorevolezza del docente, che è più educativa di ogni regolamento. Analogamente, a chi i vuole proibire il telefonino per evitare forme di bullismo di ogni specie, dico che o i docenti hanno l’autorevolezza per impedire qualsiasi forma di prevaricazione, fisica o psicologica, oppure non sanno fare il loro lavoro. Se due ragazzi si picchiano nell’intervallo, per dirne una, non c’è bisogno di un regolamento per chiedere che il docente interrompa la zuffa. Così se si assiste all’uso improprio di un telefonino si intervenga. Tutto lì. L’educazione a scuola non può passare attraverso una serie sempre più affollata di norme sollecitate all’autorità superiore – un modo di fare, tra l’altro, che delegittima la scuola e gli insegnanti. Passa piuttosto da un dialogo fra la scuola e la famiglia, fra i docenti e i genitori, fra i maestri e gli allievi, anche per concordare in modo pragmatico l’uso del cellulare. In questo senso condivido l’indirizzo del Consiglio di Stato, che non vuole allinearsi a nuovi regolamenti, come in Francia o nel Canton Vaud, preferendo che siano i singoli istituti a regolare come meglio credono la libertà di decidere come comportarsi e di comunicare con chiarezza i diritti e i doveri di ognuno: allievi, genitori e insegnanti.

L’analisi/2 – La scuola è chiamata a evitare gli eccessi delle nuove tecnologie

di Daniele Dell’Agnola

Non è facile né scontato prendere posizione fra il divieto assoluto agli smartphone a scuola e l’apertura ad un suo uso fra le mura scolastiche, anche se regolamentato. Sarei contrario ad una proibizione totale, come è stato deciso in Francia. Ma osservare decine di ragazzi nei cortili, fermi, incollati ad uno schermo, mette tristezza: la scuola deve restare un luogo di socializzazione, di formazione della persona e non uno spazio per un uso inconsapevole di oggetti tecnologici. Dovrebbe fare una “resistenza” intelligente all’abuso.

Le nuove tecnologie, i telefonini fanno parte della vita degli adolescenti. E, considerato che la scuola ha anche una importante finalità educativa, occorre prenderne atto, occorre farci i conti. Magari, integrandoli nell’ambito didattico, per un uso critico, ragionato, di queste nuove tecnologie. Nel contempo dobbiamo essere consapevoli che permetterne un uso senza vincoli nel contesto scolastico significa ancora una volta far ricadere sui docenti una sfida altissima a cui non tutti sono pronti e preparati. Alla norma generale del DECS sull’uso dei cellulari, bisogna affiancare la sensibilizzazione, la formazione, il dialogo. Non bastano un quadro normativo e delle regole di comportamento: occorre che gli insegnanti siano anche rassicurati. Ovviamente siamo tutti favorevoli ad un’educazione verso le nuove tecnologie, perché i ragazzi devono essere capaci di orientarsi in quest’ambito, devono riuscire a distinguere il vero dal falso, le news autorevoli e le fakes, le bufale, devono essere consapevoli di cosa significa divulgare un’informazione.

Però attenti, perché gli insegnati hanno già tanti altri compiti: devono prestare attenzione alle forme di disagio, devono curare la disciplina che insegnano, osservare gli atteggiamenti in classe, entrare in relazione con gli alunni. Gli smartphone sono entrati nella “dimensione scuola” negli ultimi dieci anni, quindi non possiamo essere pronti a improvvisare. Che fare dunque? Penso che sarebbe opportuno mettere dei limiti. Fare un po’ di “resistenza”. Pensando ad esempio ad uscite senza l’uso del cellulare. Un’esperienza anche solo di una giornata per far capire ai ragazzi che si può vivere, camminare, comunicare anche senza telefonini. Ciò non esclude una riflessione su un loro utilizzo più consapevole, anche attraverso esperienze a contatto con le tecnologie: il cellulare potrebbe entrare anche nell’aula all’interno di un percorso intelligente di sensibilizzazione all’uso. E con una formazione adeguata degli insegnanti. Ricordiamoci che con le regole si fa esperienza. E si cresce.


Qui finisce il servizio “comparativo” de ilCaffè. Sono contento di aver scoperto stamattina che il mio “avversario” di idee era Daniele Dell’Agnola, insegnante e scrittore che stimo molto.

Copia della pagina del domenicale può essere scaricata qui.