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I profughi eritrei a Lodano, in Valmaggia: anche questa è Educazione

Segnalo un bell’articolo comparso sulla Regione Ticino del 29 luglio: «Si conclude oggi il soggiorno degli asilanti eritrei nel rifugio PCi a Lodano – Solidarietà sulla porta di casa». Preciso, per evitare accuse intempestive, che l’articolista – Maurizia Campo-Salvi, residente proprio a Lodano – è mia cugina e che io sono valmaggese, di Someo, ma un po’ anche di Lodano, oggi ex comuni confluiti nel comune aggregato di Maggia.

L’articolo testimonia della pacifica e costruttiva esperienza capitata a quei 200 abitanti di Lodano, che hanno convissuto per tre settimane con un gruppo di una cinquantina di uomini eritrei ospitati nel centro della protezione civile. La frase-chiave dell’articolo è: «Sono le stesse persone che ci hanno infuso pietà e sgomento quando le abbiamo viste alla tivù, comodamente seduti sul divano di casa, stipate sui barconi della speranza (e della morte) alla deriva nel Canale di Sicilia».

Il merito è del Municipio di Maggia e, in particolare, del sindaco Aron Piezzi e del municipale Luca Sartori, un patrizio che ha alle spalle una lunga esperienza quale volontario tra i Guaraní della Bolivia, dove per diversi anni ha lavorato per il miglioramento nella produzione casearia.

E naturalmente un altro grande applauso va alla popolazione del piccolo villaggio.

L’esperienza è iniziata nelle peggiori condizioni. È stata messa in atto in situazione di emergenza, tanto da scatenare sui diversi social network una pandemia di commenti razzisti, neanche si fosse in attesa dell’undicesima piaga d’Egitto, col pregiudizio a far da cornice al torvo quadro. Mi ha colpito una giovane mamma, che ha dichiarato a Ticinonline: «Non mi dispiace dare una mano a chi sta peggio ma il mio pensiero va ai miei bimbi: la nostra casa è molto vicina a questo centro e i miei figli spesso giocano nel giardino. Mio marito è più tranquillo ma io cercherò di fare più attenzione».

Come se non bastasse, il solito domenicale della Lega aveva soffiato sul fuoco, a pochi giorni dall’arrivo in valle degli eritrei: «… nei giorni scorsi una cinquan­tina di asilanti sono stati piazzati nientemeno che in Valle Maggia». Si noti l’avverbio. E poi: «Sta di fatto che 50 asilanti non sono pochi da gestire per un piccolo paese! Ci piacerebbe poi sapere quanti di questi asilanti sono giovani uomini soli, quanti hanno famiglia, quanti suono “fuoriusciti” dalle patrie galere (che notoriamente sono state svuo­tate)». Non è finita: «Aspettiamo (…) che si verifichino i primi problemi di ordine pubblico legati ad una simile presenza imposta alla popolazione. E quali saranno le sanzioni comminate ai sedicenti rifu­giati che sgarreranno. Chissà perché c’è come il vago sospetto che non bi­sognerà attendere molto». Tralascio il resto.

L’esperienza, così com’è stata ben sintetizzata da Maurizia Campo-Salvi, merita di essere segnalata.

Per ventisei anni ho fatto il direttore di una scuola con circa la metà della popolazione straniera. Ho imparato che i problemi non hanno in particolare una razza, né un passaporto.

La storia di Lodano dice che anche tutto ciò è Educazione.

Lo “scandalo” di non (ri)conoscere un consigliere di stato di una Repubblica grande come un quartiere di Milano

Qua, a dire il vero, ci vorrebbe la penna di Fortebraccio, il compianto elzevirista de L’Unità. Ma forse va bene anche così. L’insegnante di scuola media che, durante un frivolo quiz televisivo, non ha saputo dire che il faccione dell’immagine mostratale era quello del consigliere di stato Paolo Beltraminelli, ha infiammato i cuori e le menti dei ticinesi.

Così come non è obbligatorio conoscere Beltraminelli, può succedere che qualcuno non sappia di chi e di cosa sto scrivendo. Tra gli altri tanti, ne ha parlato anche il Corriere del Ticino del 25 luglio. Titolo e sottotitolo: QUIZ Beltraminelli: è lui o non è lui? – A «Cash» due concorrenti, una delle quali docente, non l’hanno riconosciuto.

Oddio, il capitombolo televisivo della professoressa può anche sorprendere. Il fatto che insegni storia alla scuola media può scatenare mille invettive, com’è successo a gran parte dei commentatori. Ho letto che il deputato PPD e capogruppo in gran consiglio Fiorenzo Dadò era nientepopodimeno amareggiato (öh, la Pèpa!), tanto da correre in soccorso al collega di partito su Facebook: «Tu da buon sportivo la prendi sul ridere e questo ti fa onore. Ma in realtà c’è da piangere considerato oltretutto che si tratta di una docente! Ma cosa possono imparare a scuola i nostri figli se neppure l’insegnante non conosce chi governa il suo Paese? Mah… speriamo sia l’eccezione. Se no l’è propri grama».

Non mi va questo tentativo strumentale di condannare un’intera categoria di professionisti, come se l’ignoranza dilagante non avesse nulla a che fare con la politica. Non riconoscere il faccione di Beltraminelli può sconcertare, ma certamente non scandalizzare, se almeno resta un briciolo di buona fede. Semmai di scandaloso c’è ben altro.

Dopo l’obbligo di imparare il Salmo svizzero, questo parlamento – o il prossimo, che rischia di non essere troppo diverso – potrebbe anche imporre il riconoscimento dei consiglieri di stato e di altri politici di grido (pensa te che bei test si potrebbero somministrare). Sarebbe un’idea, no? Quand’ero piccolo c’erano l’Almanacco Pestalozzi e l’Almanacco svizzero per la gioventù, che, anno dopo anno, elencavano consiglieri federali e consiglieri di stato, accanto alle formule per calcolare l’area del trapezio e il volume del cubo, passando attraverso i valori del peso specifico. Si potrebbe ripristinare qualcosa del genere, magari in formato elettronico e a colori.

Tuttavia me n’è venuta in mente una. Nel 2003 il nostro Cantone aveva celebrato i 200 anni dalla sua entrata nella Confederazione, avvenuta grazie all’Atto di mediazione del 1803. Verso fine maggio di quell’anno vi fu una grande festa popolare per commemorare un bicentenario così importante, con tanto di «Giornata ufficiale del Cantone Ticino». Ricordo bene un simpatico servizio della nostra tivù. All’uscita di uno dei tradizionali ricevimenti, microfoni e telecamere inchiodarono diversi VIP, per lo più gente dell’arengo politico (e chi altri, sennò?): «Che cos’è l’Atto di mediazione?». Se n’erano sentite di tutti i colori. Per quel che ricordo, solo un giovanissimo Norman Gobbi, all’epoca parlamentare della repubblica, aveva risposto. Correttamente.

E sì che l’Atto di mediazione rischia di essere più importante, nel bagaglio delle nostre conoscenze, di nomi e immagini dei nostri politici. Sarebbe bello fare un test e chiedere a chi sa riconoscere Beltraminelli (senza escluderlo, ovvio) se sa cosa sono l’Atto di mediazione, la battaglia dei sassi grossi e quella di Morgarten, il Patto di Torre e il Sonderbund.

Naturalmente si potrebbero scrivere fiumi di parole per commentare questa storia estiva. Ma, proprio perché siamo in luglio, conviene lasciar perdere. E poi io, come detto, non ho la verve di Fortebraccio.

Caro Dell’Agnola, per rifar la magistrale ci vuole un po’ di creatività…

Daniele Dell’Agnola non è uno che le manda a dire. Ha il pregio di esprimersi pubblicamente su problemi concreti con coraggio e onestà intellettuale. Così il 10 luglio ha pubblicato un interessante scritto sul portale ticinonews. Titolo: La ex magistrale. Argomento (di partenza): il crescente fabbisogno di maestri di scuola elementare ha trovato una prima parziale soluzione attraverso due misure che saranno operative dal prossimo anno scolastico. Quattordici maestre di scuola dell’infanzia – «Brave e con esperienza», chiosa Dell’Agnola; brave dovrebbero esserlo tutte – frequenteranno un corso di due semestri per diventare insegnanti di scuola elementare. Inoltre i nuovi iscritti al corso bachelor del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI – il DFA, cioè l’ex ASP, cioè l’ex scuola Magistrale – saranno circa ⅓ in più degli anni scorsi, vale a dire 88, invece dei 60 usualmente ammessi. Se tutto filerà liscio, questi 88 entreranno nella scuola elementare nel settembre 2017.

Non intendo riprendere le diverse tesi evocate da Dell’Agnola; invito semmai i miei lettori a leggerselo, anche perché non è lunghissimo. Sono d’accordo, e non potrebbe essere altrimenti, che una buona scuola ha bisogno di bravi maestri. Il problema, semmai, è che lo Stato dovrebbe dire cosa vuole dalla sua scuola, mentre la Magistrale dovrà poi formare i bravi docenti. Si capisce subito che siamo confrontati con due sistemi di grande complessità. Dico spesso che la Scuola avrebbe bisogno di modifiche strutturali importanti a tutti i livelli. Per restare agli insegnanti – lo zoccolo duro di una buona scuola – occorrerebbe tra l’altro rivedere una lunga serie di «condizioni istituzionali perverse» che impediscono o, almeno, frenano tante interessanti strategie per tener alti l’impegno e la tensione etica di ognuno. Penso alla sempre più improrogabile necessità di risolvere il problema dell’aggiornamento regolare e della formazione continua; penso alla differenziazione delle carriere (non è normale, ad esempio, che uno possa diventare direttore di un istituto scolastico solo perché è un insegnante, magari del partito giusto); penso alle collaborazioni tra insegnanti, non solo per scambiarsi esercizi, per organizzare la festa di fine anno o per votare ampollose prese di posizione di natura politico-sindacale; penso a un titolo abilitante con la data di scadenza. Penso, insomma, a una struttura scolastica che sappia offrire serenità e rigore e a un’organizzazione delle sue risorse umane che non sia sempre più in emergenza – il burn out, i casi difficili, la burocrazia crescente, … – tanto da richiedere costosi cerotti un giorno sì e l’altro pure.

Anche sul versante della formazione dei maestri e dei professori (sic) è urgente chinarsi sulle migliori strategie per assolvere al meglio il mandato della Magistrale. Ed è soprattutto qui che dissento da Dell’Agnola: diminuire il numero di studenti seguiti da ogni docente e, conseguentemente, aumentare le risorse finanziare proporzionalmente con il numero di insegnanti da formare è una soluzione che comincia a venire a noia, benché trovi quasi tutti concordi. Ma ragioni e torti non sono una questione di maggioranze e minoranze. È da trent’anni e passa che la magistrale riflette approfondisce riforma, senza mai riuscire ad andare al nocciolo della questione.

La prima chiave di volta è il passaggio dal modello seminariale a quello post-liceale, che de facto aveva spazzato via il primato della pedagogia e della didattica generale, a tutto vantaggio delle didattiche disciplinari, con tutti i danni che ciò comporta e ha comportato: non ultima, l’imperante e antipatica tecnocrazia scolastica. Detto di transenna: i primi insegnanti di scuola elementare formati dalla post-liceale erano veramente pochissimi, complice anche la crisi occupazionale del settore. C’eran quasi più docenti che studenti, e questi maestri in formazione erano coccolati e amati come creature eteree. Malgrado il numero ridottissimo, non tutti sono passati agli annali della scuola ticinese. Anche per quei pochi vale l’affermazione secondo cui alcuni erano molto bravi e altri diversamente bravi…

Qualche anno dopo fu il momento dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP), che poi così alta non era. Tagliando un po’ con l’accetta, si può dire che gli assi portanti della magistrale precedente furono travasati pari pari nella nuova scuola, che doveva pur rispondere ai tanti requisiti formali fissati dalla famigerata «Dichiarazione di Bologna» del 1999. È con la nascita dell’ASP che si inventano i moduli, gli ECTS, i Docenti di Pratica Professionale (DPP), i Coordinatori di Pratica Professionale (CPP) e altre amenità di contorno. Mi si passi un’osservazione critica sul reclutamento dei DPP. Ne servivano a vagonate e, nelle intenzioni dei loro inventori, si sarebbero selezionate rigorosamente le centinaia di postulanti, così da poter far capo à la crème de la crème. Le cose non andarono per il verso atteso e sognato. Tanti bravi maestri che negli anni precedenti avevano collaborato con la magistrale per la formazione pratica degli studenti scapparono a gambe levate. Così l’ASP aveva allentato i filtri, mentre i responsabili del reclutamento telefonavano alle direzioni scolastiche come moderni «fra cercòtt», frati questuanti alla ricerca di DPP disponibili. Una menata che durò diversi anni e che fece venire l’orticaria a diversi direttori di scuole comunali.

L’ASP, tuttavia, non durò molto. Con l’anno scolastico 2009-2010 avvenne il passaggio della gloriosa magistrale dal Cantone, che la gestiva tramite il DECS, alla SUPSI, diventandone uno dei dipartimenti. Fu nominata direttrice quella Nicole Rege-Colet che fu defenestrata dal Consiglio della SUPSI già nel novembre del 2011 (avevo dedicato due articoli al tema: La frittata al DFA, in attesa della prossima portata e La formazione dei docenti tra politica e missione della scuola). Quell’anno, dunque, il DFA fu gestito ad interim dallo stesso direttore della SUPSI, in attesa che fosse nominato Michele Mainardi, che ha iniziato il suo mandato due anni fa. Va da sé che i primi tre anni della nuova scuola non hanno favorito la riflessione alla ricerca di importanti cambiamenti, per far sì che questo dipartimento della Scuola Universitaria Professionale iniziasse per davvero ad accostarsi al modello universitario, lasciandosi alle spalle, senza troppi rimpianti, i cinque lustri della post-liceale e della scuola tanto alta.

È pure ovvio che l’eredità del nuovo direttore può far tremare i polsi anche al più scafato tra gli uomini di scuola. Mainardi si è trovato a dover creare dalle fondamenta la nuova struttura, in un momento dalle mille emergenze e dovendo fare i conti con decisioni e invenzioni estemporanee del passato, recente e meno. Va da sé che i cambiamenti, di cui si avverte l’impellente bisogno, non possono essere realizzati da un direttore deus ex machina, ma servirà il contributo critico e fantasioso di tanti collaboratori del DFA, che non manca certo di personalità di tutto rispetto.

E qui torno al mio dissenso rispetto alla tesi di Dell’Agnola concernente il rapporto tra docente del DFA e numero di studenti che gli sono affidati. Vi sono, in effetti, alcune stranezze proprio nel modello formativo, che rasentano a volte l’astrusità e che appesantiscono, col rischio di vanificarlo, il compito del docente. Senza naturalmente entrare nel merito dei contenuti, vale a dire in ciò che è essenziale insegnare ai futuri docenti.

Provo a enumerare qualche bizzarria, così alla rinfusa, ispirato da quel che sento in giro. Non ci sono fonti di riferimento, ma non credo di essere troppo lontano dalla realtà e, così, di prendere qualche cantonata vistosa.

  • Per essere una scuola di livello universitario, gli studenti stanno troppo a scuola, seguono troppe lezioni. Ho frequentato l’università prima che finisse in salsa bolognese. L’anno accademico durava 25 settimane e le lezioni erano otto o nove a settimana, ognuna di due ore. Il lavoro individuale, organizzato autonomamente, era, sull’arco dell’anno, molto di più. Gli studenti della magistrale, invece, sono trattati come allievi di scuola media. Così, tra l’altro, non li vedi mai a un evento se, in cambio, non ricevono qualche biscottino, sotto forma di ECTS o di ore-lezione bonificate.
  • Oltre a ciò sembra che accanto ai corsi e alle pratiche professionali debbano compilare protocolli che richiedono un impegno sproporzionato, che potrebbe essere speso molto meglio. Tra l’altro: questi documenti qualcuno li deve pur leggere (tra i “qualcuno” gli assistenti non esistono ancora), e non è detto che il biologo riciclato in docente di didattica delle scienze sia in grado di iscrivere ciò che legge nel contesto del «lavoro in aula», con allievi concreti: che sono solitamente assai diversi dagli allievi libreschi.
  • Sento di docenti del DFA che svolgono un numero spropositato di corsi durante la settimana, magari saltabeccando da un bachelor all’altro e da un master all’altro. Poi fanno anche ricerca. In parallelo, almeno durante i periodi di pratica degli studenti, corrono su e giù per il Ticino come piazzisti, a veder lezioni, di solito dopo regolare preavviso. Anche dal profilo economico l’organizzazione non regge.
  • Per tornare alla mia esperienza universitaria, ricordo, il primo anno, un bel corso sulla valutazione tenuto dalla prof. Linda Allal. Tra le altre cose, per la certificazione era richiesto un lavoro personale che affondasse le sue radici nella pratica. A quel corso eravamo in tanti. Ma a seguire i nostri lavori personali c’erano fior di assistenti, mica la titolare del corso.
  • Non so se, a tutt’oggi, certi corsi prettamente teorici impartiti al DFA si svolgano un’unica volta per tutti, oppure se il docente deve sottoporsi al rito delle repliche. A leggere Dell’Agnola sembrerebbe di sì. So che ai tempi della post-liceale questa proposta era stata avanzata, ma respinta dai docenti medesimi. Chissà perché.
  • I DPP, a statuto comunale o cantonale, sono pagati dal DFA per accogliere gli studenti in formazione. Vi sembra logico che per formare gli insegnanti della scuola ticinese la SUPSI deva pagare? Non sarebbe nell’interesse della scuola ticinese mettere a disposizione insegnanti e classi per la formazione dei futuri colleghi? Per quel che ne so, il DFA versa centinaia di migliaia di franchi solo per pagare i DPP, per coordinarli e formarli. Non è assurdo?

Mi fermo, anche se avrei ancora molte cose da dire. Daniele Dell’Agnola, che è artista prima che docente di scuola media e formatore del DFA, m’insegna che la creatività è quella capacità di superare ostacoli che, di primo acchito, sembrano insormontabili. La creatività non serve solo per scrivere romanzi originali, per dipingere quadri stupefacenti e modernissimi o per progettare edifici straordinari e più funzionali. La teoria della relatività di Einstein, il teorema di Pitagora, le intuizioni di Mendel, la teoria dell’eliocentrismo di Copernico sono imprese di grande creatività.

D’accordo, la Magistrale non è la fisica, né la matematica, le genetica o l’astronomia. Ma, per favore!, finiamola di proporre la soluzione d’ogni problema con le prime cose che saltano in mente. O con le proposte evocate anche dai paracarri.

«I mondi esistenti della scuola»

Su La Regione Ticino del 26 giugno Daniele Dell’Agnola – scrittore, musicista, docente al Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, insegnante di scuola media – ha pubblicato un breve articolo che, almeno apparentemente, sembra limitarsi a raccontare gli ultimi giorni dell’anno scolastico con un gruppo di suoi allievi di II e di IV media. L’articolo, intitolato I mondi esistenti della scuola, è interessante per diverse ragioni, ma anzitutto perché riflette una realtà della scuola media che non corrisponde per nulla ai mondi normalmente e diffusamente noti. E, caspita!, esistenti.

Questo breve «diario» restituisce dapprima l’autorevole tensione etica dell’insegnante, che dura in maniera intelligente fino al suono dell’ultima campanella, quella del «Sciogliete le righe!». Siamo insomma lontanissimi da quel clima da tira a campare che caratterizza la fine dell’anno scolastico in gran parte degli istituti: tanto le note son già state depositate e allora conviene svagarsi.

«Io non sono qui per avere ragione», dice l’insegnante a un’allieva quindicenne, dopo aver interpretato al meglio il suo ruolo «di generatore di conflitti produttivi»: ciò che ci riporta dritti dritti alla necessità che l’insegnamento scolastico forgi teste ben fatte, anziché rifugiarsi nello stupido intento delle teste ben piene…

C’è poi la cronaca della parte finale di un lungo percorso sulla lettura dei classici, iniziato in settembre e che ha avuto il suo apice con una rappresentazione teatrale a fine anno. Qui si inserisce l’episodio, per certi versi drammatico, di quell’allievo che «disturba da mesi il lavoro del gruppo e dimostra un atteggiamento distruttivo».

«A due giorni dal debutto – annota Dell’Agnola – privo di strumenti pedagogici, spaesato, alzo la voce. Il ragazzo sta agendo in modo preoccupante. Gli chiedo di seguirmi. Ci sediamo. Gli spiego che non potrà recitare».

Alla fine quel ragazzo resterà escluso dalla recita, ma non dal gruppo. Forse in un altro contesto sarebbe stato allontanato diversi mesi fa, preso a carico da qualche servizio designato al contenimento e alla terapia dei famosi «casi difficili».

Mi è sembrato giusto conservare e mettere in evidenza questo bel modo di interpretare la scuola media, che è scuola obbligatoria: perché costruisce conoscenze e cultura, e nel contempo genera educazione. Chissà? Magari se tutta la scuola obbligatoria fosse sempre così umanista, anche i mondi impossibili diverrebbero un po’ più vicini.

Di seguito, dunque, ecco integralmente l’articolo di Dell’Agnola (mi sono preso solo qualche piccola libertà grafica).


«Siamo in quarta media, a un passo dal mondo della realtà e non abbiamo più tempo per favole, perché la fantasia non è all’altezza della realtà». Così scrive una quindicenne, riflettendo in modo critico durante un’attività di analisi del testo che ha coinvolto alcuni allievi, lettori obbligati del «Cavaliere inesistente» di Italo Calvino.

«Credevo fosse la realtà, a non essere all’altezza della fantasia» replico, dopo aver letto il testo della ragazza ad alta voce, di fronte alla classe.

«Sì, ho sbagliato, ha ragione lei» conclude, cercando di non tirarla per le lunghe.

Insisto nel dibattito, gioco la mia parte di generatore di conflitti produttivi e apro le Filastrocche in cielo e in terra di Rodari. «La scuola dei grandi» recita così:

Anche i grandi a scuola vanno / tutti i giorni di tutto l’anno.

Una scuola senza banchi, / senza grembiuli né fiocchi bianchi,

e che problemi, quei poveretti, / a risolvere sono costretti:

In questo stipendio fateci stare / vitto, alloggio e un po’ di mare.

La lezione è un vero guaio: / Studiare il conto del calzolaio.

Che mal di testa, il compito in classe: / C’è l’esattore, pagate le tasse.

Ci vuole fantasia, le spiego, anche per descrivere la realtà. I ragazzi mi osservano come se fossi un extra terrestre.

«Le ho detto che ha ragione lei».

«Va bene, ma io non sono qui per avere ragione».

L’episodio è interessante, perché tocca la sensibilità di una ragazza che sta scegliendo un sentiero percorribile dopo la scuola dell’obbligo, con pensieri e ragionamenti apparentemente aggrappati alla concretezza del vivere, ma con un bisogno malcelato di volare via, ribelli sopra una mongolfiera lanciata nell’impossibile.

Il giorno dopo sono impegnato in un lavoro teatrale, germogliato dalla lettura di classici della letteratura, proposti ai più piccoli allievi di seconda media e condivisi grazie ad un’attività di analisi e confronto degli eroi, in seguito rappresentati sul palco in una storia che ancora Rodari definirebbe «insalata di trame».

Un ragazzo disturba da mesi il lavoro del gruppo e dimostra un atteggiamento distruttivo. A due giorni dal debutto, privo di strumenti pedagogici, spaesato, alzo la voce. Il ragazzo sta agendo in modo preoccupante. Gli chiedo di seguirmi. Ci sediamo. Gli spiego che non potrà recitare. Da gennaio a giugno, seguendo un doposcuola che si è svolto dalle 15.30 alle 17.00 e un fine settimana trascorso in montagna, con nove ore di prove teatrali, ha davvero ostacolato la costruzione dello spettacolo. Sostiene di essere in grado di recitare e di rispettare gli altri. Mantengo la mia posizione. Presenterà in modo impeccabile la serata e preparerà i ringraziamenti finali, senza «stare nella storia», ma rimanendo nel gruppo.

A questa realtà va aggiunta una considerazione conclusiva, scritta da due allievi che hanno partecipato alla messinscena di una pièce sulla quale sembrava impossibile scommettere.

«Buongiorno, oggi vi voglio raccontare l’emozione che ho provato di fronte al pubblico: durante la mia prima scena mi sono sentito molto emozionato, ma soprattutto nervoso. Ero solo e mi ritrovavo da solo a dover dire con una scatola in mano: “Allora! Nessuno che mi aiuta a portare dentro le scatole”? Ad un tratto, una marea di gente che mi guardava. (…) Credo che se un giorno decidessi di diventare attore, sono sicuro che la sensazione che ho provato sarà meno forte e meno bella della mia prima volta sul palco».

«Io ho interpretato il ruolo di Cosimo di Rondò (il Barone rampante): il mio personaggio serviva, nello spettacolo, a rompere la quarta parete e quindi a renderlo più interessante».

Si conclude così un altro anno scolastico tra scritture, letture e ricerche, salutato da solchi di realtà, bisognosi di mondi impossibili.

La selezione scolastica e gli esami che non finiscono mai

I mass-media hanno l’abitudine di pubblicare qualche articolo in linea con talune scadenze canoniche. Natale, Pasqua, Carnevale e l’esodo per le vacanze estive sono ghiotte occasioni per qualche riflessione. Non può mancare all’appello la fine dell’anno scolastico. Così ecco che «Il Caffè della domenica», settimanale gratuito del Canton Ticino, nella sua edizione di domenica 16 giugno 2014 ha pubblicato un interessante contributo del Prof. Renato Martinoni, professore di Letteratura italiana all’Università di San Gallo, sul tema degli Esami. Riporto la prima parte dell’articolo, che può essere condiviso e, nel contempo, criticato. Scrive Martinoni:

In realtà, tutti lo sanno, non è soltanto a scuola che si fanno gli esami. Perché, nella vita, gli esami non finiscono mai. Anche se poi c’è chi preferisce rimandarli alle calende greche. Resta che è la scuola il vero tempio degli esami. Forse anche per questo c’è stato chi, alla fine degli anni Sessanta del secolo passato, in alcuni Paesi dell’Europa, ha cercato di abolirli: creando però una inestricabile confusione dove tutti, i bravi e i somari, uscivano dall’accademia con il voto “politico” della sufficienza. Tutti promossi, evviva!, e tutti dottori. Così però, invece di garantire l’uguaglianza sociale, veniva legittimata l’asineria collettiva. E i furbi promossi, ma ti pareva?, si ingegnavano quasi sempre a rubare il posto di lavoro ai bravi. Anche Pier Paolo Pasolini suggeriva, verso la metà degli anni Settanta, di abolire la scuola media e la televisione: perché, diceva, la scuola illude di sapere, e rende presuntuosi, mentre la televisione (quanta lungimiranza c’era nelle sue visioni!) ammalia con realtà artificiose, anzi false, e quindi rincoglionisce. Resta che, fin che la scuola esisterà, gli esami scolastici non potranno essere aboliti. Perché non sono carta straccia, come qualcuno si ostina a pensare, ma un compromesso faticoso, e a volte anche doloroso, eppure indispensabile. Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi: con tutte le belle conseguenze che ognuno può immaginare.

 

Primo insegnare: è il patto della scuola dell’obbligo (o dovrebbe esserlo)

Ma vengo al dunque. Martinoni scrive che «fin che la scuola esisterà, gli esami scolastici non potranno essere aboliti», perché sono «un compromesso faticoso, e a volte anche doloroso, eppure indispensabile. E conclude che «Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi».

Alt! Il discorso di Martinoni va bene per tutte le scuole dopo l’obbligo scolastico. Durante la fascia d’età durante la quale lo Stato ha deciso di scolarizzare coattivamente tutti i bambini e ragazzi tra i quattro e i quindici anni, non è eticamente accettabile questo tipo di selezione, basata essenzialmente su conoscenze di tipo intellettuale o cognitivo. Lo scopo della scuola dell’obbligo non è quello di scegliere le future élite del paese, bensì quello di dare una formazione di base solida affinché ognuno possa diventare un cittadino attivo e informato, un cittadino che sa pensare, perché conosce a fondo la lingua parlata dove vive, perché padroneggia le basi della matematica, perché ha imparato la storia e la geografia del suo paese, e magari ha sufficienti rudimenti per comunicare in altre lingue. Aggiungerei: durante quegli undici anni di scuola obbligatoria ha pure imparato ad apprezzare la poesia o la letteratura, la pittura o l’architettura, la musica, la fisica o le scienze naturali.

A cosa servono le certificazioni annuali, i test reiterati e ravvicinati, le note a ogni piè sospinto, i dannosi giudizi di valore? Nella scuola dell’obbligo deve eccellere la tensione etica volta a insegnare. La soddisfazione del Maestro è quella di riuscire a far «bere un cavallo che non ha sete», per citare Célestin Freinet. Per separare gli astrofisici dagli idraulici e i filosofi dagli imbianchini ci sarà tempo più tardi, aggiungendo che una scuola dell’obbligo seria e deontologicamente elevata è pure in grado di orientare bene una ragazza o un ragazzo di quindici o sedici anni: che se è in grado di conoscere le sue debolezze e i suoi punti di forza non andrà al liceo solo perché non ha ancora capito cosa vuol fare da grande – o perché se la va la spacca.

Qualche giorno fa ho partecipato alla cerimonia di commiato dagli allievi di 5ª elementare delle scuole comunali di Locarno. Ospite d’onore era Franco Lazzarotto, per tanti anni direttore (anomalo) di scuola media. Che non ha risparmiato alcuni consigli alla sua platea di decenni neo-licenziati dalla scuola elementare. «In settembre – ha detto – inizierete a frequentare la scuola media. Vi do tre consigli. Primo: quando entrate a scuola, ricordatevi di accendere il cervello. Secondo: andare a scuola è un po’ come andare a lavorare. Piegare la schiena è importante e inevitabile, con costanza a caparbietà. Terzo: è importante metterci anche il cuore, che dà una prospettiva positiva e piacevole verso la scuola e ciò che s’impara».

Facile a dirsi, ma sappiamo quali sono gli effetti, a quell’età, delle tempeste ormonali (e degli stimoli più o meno “alti” che si ricevono o non si ricevono in famiglia; e, aggiungerei, anche a scuola). E allora non è con i test e con le note e con gli esami che si insegna. Ma i tre consigli di Lazzarotto valgono anche per gli insegnanti: accendere il cervello, piegare la schiena e metterci il cuore riportano dritti dritti a Johann Heinrich Pestalozzi, che non è propriamente l’ultimo arrivato.

Non ci si può beare – e magari riderne – delle tante insufficienze che si rifilano a fine semestre e fine anno. Assegnare un 3 in matematica o in italiano a un bambino di otto anni o a un ragazzo di tredici non serve a nessuno. Non serve all’insegnante, che se è psichicamente equilibrato e ha fatto il possibile per far crescere il suo allievo, dovrebbe farsene un cruccio; non serve all’allievo, che nella peggiore delle ipotesi sapeva già di non aver capito; e non servirà a quello Stato che ha bisogno di cittadini che sanno pensare.

Attenzione. Non sto spalleggiando i fautori del voto “politico”. Ma un insegnante della scuola dell’obbligo ha il compito primario di insegnare, prima di sottrarre tempo inutile a dàr le note. Il maestro della scuola elementare e il professore della scuola media devono parlare coi loro allievi, devono – se occorre – metterli duramente con le spalle al muro.

«Caro ragazzo, è inutile cercare scuse e arrampicarti sui vetri. Questo libro che dovevi leggere entro oggi non l’hai nemmeno aperto. Così già da oggi starai con me ogni martedì sera. Io preparerò le lezioni dell’indomani o correggerò alcuni lavori di oggi, e tu leggerai il tuo libro».

«Come? Non puoi perché il martedì sera hai l’allenamento del calcio? No, caro mio. Parlerò coi tuoi genitori e col tuo allenatore, ma tu al calcio continuerai a giocare solo dopo che avrai svolto fino in fondo il tuo dovere: che è quello di venire a scuola e di imparare».

Ha scritto don Lorenzo Milani che «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde».

 

Scuola e selezione

Scrive ancora Martinoni: «Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi: con tutte le belle conseguenze che ognuno può immaginare». Non credo che si tratti solo di scansafatiche e di veri e propri fannulloni. La selezione è certo necessaria, al momento buono. La scuola dell’obbligo dovrebbe saper orientare. Se la scuola media fosse in grado di insegnare e di orientare per davvero, eviteremmo per cominciare tante carneficine durante il primo biennio della scuola media superiore. Ma anche su queste stragi qualcuno dovrebbe in ogni modo riflettere: un po’ per esperienza diretta, come genitore, e un altro po’ grazie a osservazioni indirette, non mi sembra che gli esami del liceo rispondano alla definizione che ne dà Martinoni: «come deve essere un esame degno di questo nome? (…). Un vero esame è uno spazio aperto di riflessione, non un palcoscenico per dei secchioni che ripetono alla lettera quello che hanno mandato a memoria. Senza magari neanche capire ciò che dicono. Un vero esame non è un atto intimidatorio: dove chi interroga (succede, ahimè!) è il tiranno e chi viene tartassato, il tapino, è la vittima sacrificale. Anzi, diciamola pure tutta, un vero esame è un luogo di incontro, dove ciascuno ha un compito definito: chi lo conduce, il professore, deve porre domande chiare e precise (…); chi lo sostiene deve sapere che non si può vomitare tutto, solo per fare bella figura (…). Perché a contare non deve mai essere la quantità: ma la qualità. Detto altrimenti, un esame degno di questo nome non è un fuoco d’artificio, né una camera delle torture, ma una prova di intelligenza: dove una preparazione solida si combina con la capacità di argomentare con saggezza e di sostenere le proprie opinioni».

Alzi la mano chi ritiene che nelle nostre scuole la selezione avvenga solitamente attraverso esami di simil fatta.

È vero, per contro, che la selezione ha grande valenza sociale e politica quando si imbocca la strada che porta al mondo del lavoro. Quando ho bisogno dell’elettricista, quando porto l’auto in garage, se sono ricoverato all’ospedale, quando mando mio figlio a scuola devo avere cieca fiducia nell’elettricista, nel meccanico, nel medico e negli infermieri, nell’insegnante. Pretendo che il mio elettricista, il mio meccanico, il medico e gli infermieri che si prenderanno cura di me, l’insegnante che insegnerà e valuterà mio figlio siano formati adeguatamente per svolgere le loro mansioni e che conoscano a menadito lo stato dell’arte.

Le scuole, in questi casi, non devono e non possono titubare o distribuire “voti politici”. Ho sempre creduto che le cose si sanno o non si sanno (ecco perché sono contro le scale di note, coi loro mezzi punti beceri). Il giurista, il maestro, l’imbianchino e il poliziotto devono saper fare il loro lavoro. È quel che ognuno si aspetta da loro.

Com’è un chirurgo da 4 o 4½? Ci si può fidare? Oppure la probabilità che “l’operazione è riuscita ma il paziente è morto” è alta?

Poi ci sarebbero alcune cose da dire sulla scuola medio-superiore, liceo in testa: una scuola dall’identità sempre più imprecisa, sulla quale converrebbe riflettere seriamente. Ma questo è un altro discorso (che in parte ho già toccato il 18 settembre 2013: Non accorciamo il liceo, ma cinquemila studenti son troppi).